In una puntata di “Newsroom”, la biondina è su un treno, sta tornando da Boston a New York. La biondina, mi dice Google, si chiamava Maggie: ho cercato il nome perché mi viene il sospetto che siano finiti i tempi in cui ci si poteva riferire a lei come «la dentona» (“Newsroom” finisce nel 2014: un’altra era geologica).
È su un treno e si lascia affondare nel sedile perché ha capito che quello seduto dietro di lei, uno che lavora all’ente che si occupa d’ambiente e clima, sta per dire al telefono delle cose che non bisognerebbe sentire, e infatti quello si guarda intorno, non la vede, pensa che nessuno lo possa sentire nello scompartimento vuoto, e racconta tutt’una serie di cose che non si dovrebbero sapere.
È in quel momento che ci facciamo tutti una domanda che poi, nel decennio successivo, smetteremo di farci: se tu racconti i fatti tuoi a voce alta, sei scemo tu o è stronzo chi se ne approfitta?
La domanda abbiamo smesso di farcela quando il confine tra pubblico e privato è andato completamente a meretrici. Negli ospedali ci chiamano con l’iniziale del cognome per la privacy (acciocché io possa confondermi tra le moltissime Guia S. che affollano l’Italia), ma il vicino di posto in treno non vede l’ora d’illustrare in viva voce i dettagli della sua colonoscopia.
Non prendo molto spesso la carrozza silenzio, ma ogni volta incappo in qualche surreale fenomeno di non comprensione della convenzione narrativa: quella che sta in videochiamata perché «siamo fermi in stazione, il silenzio vale in movimento», quello che neanche abbassa la suoneria e se gli dici che è la quindicesima telefonata ti dice che però per la terzultima si è alzato ed è andato a chiacchierare nell’altro vagone e forse vuole anche una medaglia.
Ho a volte l’impressione che costoro non concepiscano la conversazione a due, e prendano la carrozza silenzio per essere meglio ascoltati da estranei che non stiano anche loro al telefono. Tali e quali alle ventenni che raccontano i dettagli della loro sessualità a un social network e poi si risentono per i commenti sgarbati come se si aspettassero il rispetto che sì e no si ottiene a cena con le amiche.
A cena con le amiche a casa, perché al ristorante appunto c’è qualcuno che ti ascolta, come in treno: non sono numerosi quanto quelli sull’internet, ma sono altrettanto estranei. E quindi siamo tutti d’accordo che il complotto del Quirinale sia una scemenza immaginata da politici senz’uso di mondo, ma la domanda tocca farsela sperando di scansare le accuse di victim blaming: ma a te, che nella vita fai il consigliere del Quirinale, e sei a tavola con sedici persone in un ristorante romano, come viene in mente di metterti a spiegare ai commensali come bisogna eleggere il prossimo presidente della Repubblica? Non ti accorgi di ricordare un po’ quel padre della patria cui Richard Burton aveva vomitato sul tappeto?
Certo però, al ristorante no, sulle chat no, al telefono figuriamoci, ancora diciamo «salutiamo il brigadiere che ci intercetta» da quando lo sentivamo dire ai nostri genitori negli anni Ottanta, un po’ mitomani un po’ consapevoli che la privacy sia un concetto di fantasia: è rimasto uno straccio di posto nel quale possiamo parlare senza che ciò che diciamo venga usato contro di noi?
Forse no, considerata anche l’eventualità che la vittima con minigonna del caso – Garofani, che non solo trova sputtanate le proprie conversazioni private ma si ritrova pure con le Soncini del caso che gli dicono: eh però te la sei cercata – sia stata non origliata da un vicino di tavolo ma registrata da un commensale, come ipotizzava ieri il Corriere. Anche lì: tocca pensarci e organizzarsi di conseguenza?
Quattro anni fa, quando Fedez pubblicò la registrazione d’una telefonata in cui gente della Rai gli parlava della sua partecipazione al concerto del primo maggio (quella cosa che una volta si chiamava linea editoriale, poi ai tempi di Santoro divenne censura, e con la telecamera del telefono è diventata come ti permettiiii), io mi chiedevo a chi venisse in mente di parlare con uno che pubblicava tutto senza calcolare che quello poi avrebbe pubblicato tutto. Poi Fedez si è a sua volta trovato le sue private conversazioni rese pubbliche da Fabrizio Corona, e anche lì: come ti viene in mente che Corona non ti sputtani. Però, man mano che la casistica di quelli che non si tengono per loro quel che gli dici aumenta, forse bisogna anche iniziare a farsi due conti e a non dire niente che non siamo pronti a veder riportato sui social, sui giornali, ovunque. Lo so: state pensando «orwelliano».
Non sto facendo l’elogio della trasparenza, figuriamoci. Anzi, devo dire che delle migliaia di cose che il giornalismo americano sta scrivendo del caso Olivia Nuzzi quelle che mi fanno più ridere sono quelle che ritengono che scoparsi quello che intervisti e non dichiararlo nell’articolo sia una grave violazione etica. Ma non sappiamo mai cosa c’è fuori dagli articoli che leggiamo. Non sappiamo se un articolo da cui qualcuno vien fuori male sia il risultato del suo essere stato scortese con l’intervistatore, se un articolo di lodi sia il risultato del fatto che l’intervistato ha fatto un qualche complimento particolarmente gradito a chi scriveva. Lo scandalo per il caso Nuzzi incrocia il noto puritanesimo dell’America (le foto di tette sono diverse dalla gentilezza generica, diamine) e l’illusione del controllo che devasta questo secolo. Ho il diritto di sapere, pensiamo, senza renderci conto della nostra ridicolaggine.
L’altro giorno una giornalista mi ha detto che ero una persona orribile e che si augurava il mio decesso o giù di lì perché l’avevo irrisa su una sua qualche pseudologia fantastica (su un Richard Burton che le aveva vomitato sul tappeto). Lì per lì non ho capito di che parlasse, poi mi sono ricordata: ah, sì, quella stronzata che si era inventata due anni fa. Mi è venuto il sospetto che a svelarle che ne avevo riso fosse stato il faldone dei messaggi delle femministe dell’Instagram cadute in disgrazia.
Ma è una consapevolezza vaga: non posso sapere esattamente in che termini ne avessi riso perché, per farlo, dovrei ascoltare due anni di messaggi vocali che qualcuno ha trovato utile mettere in un fascicolo giudiziario e che qualcun altro ha avuto abbastanza tempo libero da ascoltare. Ho un debole per me, ma non abbastanza da ascoltare anni di conversazioni non particolarmente significative.
E quindi tutto sommato quello che fa un articolo su qualcuno che mitomaneggia di Quirinale al ristorante è sano di mente: gli raccontano una cosa, forse gli passano una registrazione in cui si ciancia di istituzioni sforchettando la cicoria ripassata, arma la sua polemica, forse vende persino un paio di copie in più del giornale. Più sano di mente lui di quella che ha una tale brama di sapere se per caso qualcuno parla di lei da ascoltarsi chissà quanti messaggi vocali. Chissà se dal faldone giudiziario i messaggi si possono almeno ascoltare a doppia velocità.
(Sono moralmente contraria ai messaggi ascoltati a doppia velocità e anche alla funzione che li trascrive risparmiandotene l’ascolto: se ti lascio un vocale, esigo che tu lo ascolti con tutte le mie strategiche pause e intonazioni. Ma se ti metti ad ascoltare vocali altrui nell’illusione che questa perdita di tempo ti darà il controllo di cosa il mondo pensa e dice di te, allora mi pare che dimezzare l’investimento temporale sia una scelta sensata. Andare a farti un gin tonic invece di origliare sarebbe ancora meglio, ma insomma una politica dei piccoli passi: si comincia dalla velocità doppia e poi ci si disintossica dalla determinazione a rendersi infelici calpestando il valore civile dell’ipocrisia).
La biondina poi al tizio del treno offre una via d’uscita dallo scoop: lei non racconta cos’ha origliato, ma lui va ospite in trasmissione. Lui ci va, e dice in diretta che ormai è troppo tardi per salvarci dal riscaldamento globale, che il pianeta finirà, che non c’è niente da fare. Il conduttore si chiede chi diavolo gli abbia messo lì quell’ospite apocalittico che rovinerà il venerdì sera al suo pubblico. La biondina, in regia, si maledice. Noi, me lo ricordo come avessi visto la puntata ieri, davanti al televisore pensavamo: così impari a origliare, cretina.