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Maurice Ravel




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Articolo pubblicato il 17-07-2004
di Marina Pinto

Numero 7 - Anno I
17 Luglio 2004





Maurice Ravel: il dolore e la malattia

L'immagine del musicista Maurice Ravel (1875-1937) è quella di un uomo vivace, giovanile, caustico e tenero al tempo stesso, un amante della vita, un "bambino cresciuto" che sempre si rifugiava nella fantasia e nelle favole infantili. Ma, allorquando si avvicinarono i suoi ultimi anni, la sua esistenza fu completamente diversa, devastata da quella che oggi si definisce. "Malattia di Alzheimer" - allora ancora sconosciuta - che si rivelò fatale ed inesorabile

Raccontiamo la drammatica verità sulla sua fine, non fosse altro che per farne rilevare la grandezza della sua opera: tutti coloro che apprezzano la musica di Ravel devono sapere in quale angoscia morale egli si dibatté per quasi quattro anni, soffrendo con muto coraggio, sfidando il destino fino all'ultimo. Come fu per Schumann, come Beethoven ed altri spiriti eletti, Ravel pagò su questa terra il privilegio di essere immortale.

Maurice Ravel Ravel soffrì il supplizio di essere murato vivo in un organismo che non ubbidiva più alla sua intelligenza, inesorabilmente vedeva vivere nel proprio corpo uno sconosciuto, come fosse incatenato ad un malefico sortilegio, egli, come certi personaggi delle tragedie greche, era stato fulminato dalla vendetta degli dèi gelosi.

Tragedia… autentica tragedia fu quella che colpì lui e quanti gli furono vicini. Già diversi anni prima i suoi amici si erano accorti che certe piccole distrazioni, certi gesti strani, lenti ed incontrollati, si ripetevano troppo spesso, e ne erano preoccupati.

Nel 1928 Ravel si sentì pervadere da una grande stanchezza; egli aveva sempre sopportato bene qualsiasi malessere, ma ora cominciò a lamentare seriamente i sintomi di quella "anemia cerebrale" che gli portava disturbi nervosi e momenti d'amnesia, facendone risalire le cause alle insonnie persistenti. A volte durante i suoi concerti egli si sentiva "sperduto" davanti alla sua musica, come un bambino nel bosco.

Un medico - il dottor Vallery-Radot - prescrisse al maestro almeno un anno di assoluto riposo. Egli aveva immediatamente compreso che quella strana spossatezza, inizialmente creduta passeggera, era invece il sintomo di un male molto grave. Ravel partì per l'America, per tre mesi aveva in programma di viaggiare e di non comporre nulla, ma al suo ritorno, ritenendosi guarito, non volle dar retta alle raccomandazioni del medico, e si rimise a lavorare, continuando fino al 1932.

Nacquero in quegli anni il "Bolero", le "Chansons de Don Quichotte à Dulcinée" e i due "Concerti per pianoforte e orchestra", tra cui, nel 1931, il famoso "Concerto in re per la sola mano sinistra", scritto da Ravel in omaggio ad un amico pianista che aveva perso il braccio destro nella prima guerra mondiale.

Ma, nel 1932, un incidente d'auto lo costrinse a rimanere a letto per qualche giorno: ne riportò danni fisici non gravi, qualche dente rotto, un gran turbante di fasciature intorno al capo, ma soprattutto un forte choc, molto più grave di quanto si potesse pensare dal principio. Si pensa infatti che quell'incidente abbia influito piuttosto pesantemente sulla malattia di Ravel, perché il suo stato di salute peggiorò sempre di più proprio a partire da quel momento.

Ravel allora provò di tutto: elettricità, iniezioni, riabilitazioni, suggestioni, ogni amico che lo veniva a trovare gli proponeva un mezzo sicuro di guarigione, ed egli, come un disperato, si sottopose alle cure più inverosimili.

La musica non ne soffriva ancora, ma la sua persona si era spenta; certe parole si perdevano prima di uscire dalle labbra, certi gesti esitavano un poco prima di ubbidire al cervello. Ancora il riposo assoluto fu il consiglio dei medici.

Sfortunatamente il male si aggravava, come sappiamo accade in questi casi, ed ogni giorno presentava una prova ulteriore della sua implacabilità. In breve tempo Ravel non riuscì più a scrivere nulla, ma non parliamo solo di musica, nel 1935 egli scrisse una lettera di condoglianze ad un amico, impiegandovi, con enorme fatica, una settimana intera, ritrovando la forma delle lettere con l'aiuto di un dizionario, e presto non riuscì più nemmeno a scrivere il suo nome.

Fu il primo grande tradimento del suo cervello.

Quando, uscendo trionfalmente da una sala da concerto dove si era rappresentato un suo lavoro, decine di giovani ammiratori impazienti gli si precipitavano incontro, con la stilografica tesa come un pugnale a chiedergli l'autografo, il musicista passava tra loro come un automa, senza nemmeno udirli, il volto atteggiato ad un distacco che poteva essere scambiato facilmente per superbia (e, ahimè, sappiamo che accadde), mentre, dentro il suo petto, il cuore gli scoppiava d'amarezza.

Nei primi tempi della malattia Ravel tentò di ribellarsi, si spazientiva quando non riusciva a ricordare dei nomi familiari, ma poi il suo dolore si fece più segreto… ed egli non cercò altro che la solitudine. Se qualcuno gli chiedeva: "Cosa sta facendo?", lui rispondeva semplicemente: "Aspetto". Per quattro anni il suo dramma fu questo: aspettava… aspettava il miracolo che gli avrebbe ridato la sua prodigiosa facoltà di lavorare, "Ho tanta musica in mente!", ripeteva continuamente.

La morte sopraggiunse nel Dicembre del 1937, e fino a quel momento Ravel aveva continuato ad addentrarsi nella notte. La sua vita non fu che una lunga agonia, della quale egli fu, in una sola persona, il principale attore e l'unico spettatore. Ebbe la possibilità, attraverso la lucidità delle percezioni e l'inesorabile critica verso sé stesso, di continuare a notare, giorno per giorno, ora per ora, la sua lenta distruzione, il sicuro annullamento del proprio essere, sensazioni che non lo abbandonarono mai; intorno a lui risuonò un canto funebre del quale egli annotò tutte le battute, senza poterne esprimere una sola.

Ravel fu il compositore della sua morte vivente, e potè ascoltare il suo Requiem con spirito lucido, accompagnato da un'invisibile orchestra che soltanto lui poteva udire, formata da violini lontani, flauti soffocati e tamburi velati.

Qualche volta gli pareva che le pareti della casa lo opprimessero: allora si rifugiava nella natura, e soltanto con quel contatto egli riusciva a placare un poco la sua angoscia. Camminava a grandi passi ritrovando i suoi angoli preferiti per nutrire quegli ultimi sprazzi della sua speranza; il profumo dell'erba, una pianta di cui amava sorvegliare la crescita, il richiamo degli uccelli o un angolo di cielo trasparente lo rendevano pago e per un attimo dimentico del suo supplizio… Inevitabile il confronto con il grande Beethoven, che nella stessa natura trovò un rifugio sicuro alle implacabili angosce della sua malattia, la sordità.

Ma, al ritorno, l'ansia lo riafferrava. Ravel ridiventava inquieto, cercava rifugio in casa d'amici trascinandovi il suo dolore, senza poter trovare quella calma che gli avrebbe fatto sembrare meno miserevole la vita. Per sua fortuna molti furono coloro che in quegli anni si offrirono di stargli vicino.

Nonostante la malattia, Ravel sapeva apprezzare la bontà e la tenerezza degli amici che si prodigavano per lui, e tutti cercavano di appianare le difficoltà che ogni giorno gli si presentavano davanti. Quando qualcuno lo andava a trovare - e ve n'erano taluni che si recavano a casa sua ogni giorno - il suo viso s'illuminava, ma la conversazione era più a meno sempre la stessa: "Come va maestro, è riuscito a lavorare un po'?"

Ravel scuoteva tristemente la testa, ed i suoi occhi si velavano di tristezza… e nella sua discrezione ed ingenuità egli aggiungeva: "Perché doveva capitare proprio a me, avevo scritto delle cose abbastanza buone, non è vero?"

Ravel non parlò mai della morte, né di ciò che si sarebbe dovuto fare dopo: non un testamento, non una lettera hanno mai potuto indicare quali fossero le sue ultime volontà, egli temeva la fine ancor più della malattia.

Si tentò tuttavia una delicata operazione: il professor Clovis Vincent cercò di strappare il musicista alle forze malefiche del male, forse cercando di rimuovere dal suo cervello quel tumore che si pensava ci fosse.

Qualche ora dopo l'intervento sembrò accendersi una luce di speranza… Ravel aveva riaperto gli occhi, e si credette al miracolo per ben otto giorni.

Poi Ravel se ne andò senza risvegliarsi, con l'animo ingenuo ed il medesimo pudore che aveva reso semplici i più gravi avvenimenti della sua vita…

La notizia della sua morte commosse tutto il mondo della musica, che sentì di aver perso uno dei più grandi compositori del suo tempo; il fratello Edouard e gli amici, tra i quali il grande Strawinskij, seguirono il suo funerale fino al cimitero di Levallois, dove Maurice fu sepolto accanto ai suoi genitori, che aveva amato tanto profondamente.

La sua grande musica, quella ci parla di lui.


Autore: Marina Pinto


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