Mercoledì abbiamo presentato a Brussels al Parlamento Europeo il nostro ultimo studio su “StartupCity Hubs in Europe“.
Rimandando alla lettura del report (qui il link per il download) per avere il quadro completo dei dati e dell’analisi, mi limito a segnalare le evidenze principali e alcuni commenti (personali).
Il 67% delle scaleup in Europa è concentrato in 48 città, di solito nella capitale. Se si restringe l’analisi, 10 città ospitano il 53% delle scaleup europee.
In soli 6 paesi ci sono due poli di similare dimensione: Spagna (Barcellona e Madrid, in questo ordine, Portogallo (Lisbona e Porto), Polonia, Belgio, Svizzera e Cipro
In soli 4 paesi il polo principale non è la capitale (Spagna, Italia, Svizzera e Cipro)
L’aspetto interessante e allarmante al tempo è che questa concentrazione (ai limiti del mostruoso) dell’economia dell’innovazione e delle startup intorno a pochi hub non riflette la rilevanza che le città che le ospitano hanno oggi, né in termini di ricchezza prodotta (rappresentano il 34% del GDP dei rispettivi paesi) né tantomeno di popolazione (vi abita il 14% della popolazione).
La new economy (o l’economia dell’innovazione e delle startup) è costruita sul principio che “Winners take all”. Questi dati mostrano che lo stesso principio tende ad applicarsi anche nella geografia economica. Le attività economiche e la ricchezza prodotta tenderà ad addensarsi su pochi poli, portando a una crescente marginalizzazione delle città di secondo livello (quelle che chiamiamo come “tier-two startup cities” nel report) nonostante queste abbiamo un ruolo importante. Nel report è presente un indicatore (StartupCity Future Growth) che visualizza quali città sono destinate a conquistare terreno e quali invece a perderlo.
Generalizzando ed estremizzando, come la industrializzazione ha progressivamente portato a svuotare campagne e paesi a favore delle città, la new economy e le startup potrebbero portare ad ammassare le attività produttive su una o massimo due città per paese.
E questo, come ha commentato Isidro Laso Ballesteros della Commissione Europea, può dare spazio a fenomeni di disgregazione e separazione territoriale, a livello sia nazionale che europeo.
Crediamo che questo non sia accettabile da un punto di vista politico e sostenibile sotto il profilo economico (basta vedere le crescenti tensioni che ci sono oggi in Silicon Valley).
Per questo abbiamo lanciato una iniziativa “StartupCity Europe Partnership” per cercare di supportare attivamente le città di secondo livello a sviluppare piani strategici in tema di startup improntati alla specializzazione (non si può fare tutto, soprattutto se si è piccoli) e alla internalizzazione (bisogna essere parti di reti più grandi, soprattutto se si è piccoli). Per 150 città europee (esclusi i 48 hub principali e le capitali) abbiamo fatto una prima valutazione sulle potenzialità di ripresa (StartupCity Innovation Potential). Tra queste ci sono Torino, Napoli, Bologna, Pisa, Firenze, Palermo, Padova, Reggio Emilia, Trento, Cagliari, Pavia e Como.
Ultima nota. Molti sindaci erano a Brussels per la presentazione dell’iniziativa. Nessuno dall’Italia.
Diverse testate internazionali hanno dato spazio o si sono interessate all’analisi dei dati. Nessuna dall’Italia.
La sensazione è quella di un paese troppo assorbito dalla contingenza e dall’emergenza per accorgersi e riflettere sui grandi temi di sviluppo (o di decadenza).
E, senza sviluppo e prospettiva, si tenderà sempre a rincorrere e subire la contingenza e l’emergenza. Con sempre meno risorse.
Spesso ripeto che l’unico risultato certo del fare startup e farle crescere è che da questa si genereranno nuove startup. È quanto viene definito “spin-off” (ossia nuove aziende che nascono dall’alveo di una azienda esistente).
Lo avevo pronosticato nel caso di Mosaicoon, lo ho sempre detto quando mi chiedono di parlare di Funambol, la scaleup californiana-pavese che ho lanciato, più di una decade fa, insieme a Fabrizio Capobianco e a Stefano Fornari. Molti dei dipendenti ripartiranno da imprenditori (alcuni peraltro lo hanno già fatto). Perché partecipare a una avventura imprenditoriale ambiziosa con profilo internazionale contagia.
La settimana scorsa tuttavia devo ammettere che la realtà è andata oltre le mie previsioni, quando ho visto un nuovo libro (“Il respiro di Marte“) su Amazon il cui autore è (udite udite) il nostro Head of Engineering Andrea Gazzaniga.
Devo ammettere che sono rimasto sorpreso. E sono rimasto ancora più sorpreso dopo averlo letto. Per la visione, per la storia, ma anche per la ricerca che c’è dietro.
Mi è piaciuto l’incipit (molto imprenditoriale e “lean”):
“Quando è impossibile fare una cosa in un certo modo, bisogna semplicemente trovarne un altro”.
Ma, forse ancora di più, la riflessione finale:
“Nel suo complesso, l’evoluzione dell’umanità dipende poco dal comportamento dei singoli, molto più dalle condizioni culturali ed economiche di un dato momento. Ci sono però situazioni particolari, persone che si trovano ad un bivio dello sviluppo storico e che, con le loro decisioni, spostano l’equilibrio verso l’una o l’altra direzione possibile”.
Nel mezzo un bel romanzo, che non svelo perché si fa leggere volentieri (sono di parte? può darsi, ma è giusto essere orgogliosi delle “intraprese” dei tuoi).
Chiudo con una foto recente del gruppo Funambol.
Lascio a voi scommettere quanti imprenditori (e autori di best seller) ci sono tra loro.
La settimana scorsa il torpore del piccolo villaggio delle startup italiane è stato turbato dall’annuncio della chiusura di Mosaicoon.
Ha fatto notizia, la voce si è sparsa di casa in casa e ciascuno nel villaggio ha aggiunto la sua.
Con la stessa passione e disillusione (e competenza) con cui è stata commentata l’uscita dell’Italia dal mondiale, nel villaggio si è dibattuto del caso Mosaicoon.
Il buon Ugo Parodi Giusino è passato da eroe a fellone a colpi di click. “Esperti” – che non hanno mai messo piede a Isola delle Femmine e che non hanno mai gestito aziende tecnologiche con più di cinquanta persone e/o cento mila euro di fatturato – si sono sentiti in obbligo di giudicare il suo operato imprenditoriale.
Ma queste sono le dinamiche del villaggio, del piccolo villaggio delle startup italiane.
La realtà è un’altra.
La notizia della caduta di Mosaicoon fa un rumore assordante perché di aziende come Mosaicoon ce ne sono poche.
Dai nostri dati (pubblicati la settimana scorsa) le “scaleup” in Italia sono 178 a fine dicembre. Rectius 177.
Le scaleup sono startup che sono cresciute. La crescita non le rende tuttavia invulnerabili. Solo dannatamente più difficili da gestire.
Un conto è virare una canoa con due persone a bordo, un conto è farlo con una nave da cento persone. Gli spazi e i tempi di manovra sono più ristretti.
Al pari delle startup, anche le scaleup falliscono perché lavorano sul fronte dell’innovazione. E per chi lavora su quello spazio, il non riuscirci è la norma.
Se l’80-85% delle startup non ce la fa, è ragionevole assumere che una percentuale minore ma sempre significativa delle scaleup faccia la stessa fine.
La differenza tra startup e scaleup è che mentre le startup falliscono, di solito le scaleup che “faticano” vengono comprate. Quindi le percentuali di cui sopra sono annacquate.
I nostri dati mostrano bene questo aspetto: il 71% delle acquisizioni di startup non restituisce il capitale investito. Solo il 13% delle acquisizioni di startup è veramente lucrativo per chi vende.
La vera notizia è che nessuno si è mosso per comprare Mosaicoon.
Questo è il limite sostanziale di un ecosistema (italiano ma anche europeo) ancora in ritardo, in cui le acquisizioni di startup di fatto non sono una prassi diffusa per importare talento e innovazione.
Credo che la storia di Ugo Parodi Giusino e di Mosaicoon, come tutte le storie di startup, sia una storia di coraggio e successo. Una storia il cui lieto fine non è quasi mai alla fine del film ma durante la proiezione.
L’esperienza di Mosaicoon ha comunque contributo a innalzare il tessuto imprenditoriale di una regione già ricca di talento ma ancora povera di esempi (su scala lievemente diversa vale lo stesso per l’Italia).
Per le cento persone che hanno lavorato a Isola delle Femmine così come per tutti quelli che hanno visto cosa si può fare quando si è mossi da un disegno ambizioso, questa esperienza rimarrà. E, passato il momento, questo fiume di talento corroborato da esperienza imprenditoriale si riverserà nel sistema dando luogo a tante nuove Mosaicoon. Spin-off è il termine se vi piace l’inglese. Fuoco imprenditoriale se preferite l’italiano.
Perché le startup, come le scaleup, non falliscono. Imparano e ripartono in nuove forme.
Il mondo delle startup non si addice a chi ama le storie a lieto fine.
Disclaimer: avevamo selezionato Mosaicoon nel 2015 per SEC2SV in quanto azienda in crescita con un piano di sviluppo internazionale che includeva gli Stati Uniti.
La settimana scorsa avevo pubblicato le mie riflessioni a valle degli Stati Generali sulle startup in Italia che si sono tenuti a Roma in occasione dello Startup Day organizzato dall’AGI.
Ne è derivata una discussione tanto ampia quanto interessante che tuttavia non traspare dalla sezione commenti del Corriere (che difatti è praticamente deserta, anche perché oggettivamente inutilizzabile – riporto in calce (*) uno dei tanti “pareri” al riguardo).
Il dibattito avviene in rete e non sui media tradizionali. Il che – di per sé – è un chiaro segnale della distanza tra questi mondi. Distanza che rende il mondo delle startup ancora per larghi tratti autoreferenziale. E inascoltato.
Per questo credo sia utile riportare qui parte delle riflessioni, per tenere il canale di comunicazione aperto con il resto del mondo, che resta rilevante ed essenziale.
Tra i diversi commenti ricevuti, riprendo quanto ha detto Mauro del Rio, fondatore di Buongiorno, una delle figure storiche dell’ecosistema italiano.
Mauro scrive:
“Condivido. In sintesi:
per fare partire il settore servono investimenti dimensionalmente paragonabili a quelli di altri mercati, quindi due ordini di grandezza superiori ad oggi;
gli investimenti in startup in Italia non ritornano: per questo, e non per ragioni “sbagliate”, ci sono pochissimi investimenti privati;
quindi gli investimenti non possono che essere pubblici;
meglio se espliciti (quindi trasparenti) piuttosto che impliciti attraverso agevolazioni/tax exemption/etc. (complicati, poco trasparenti)
nel momento in cui come industry del venture capital chiediamo importanti investimenti pubblici, non possiamo pensare di beneficiarne direttamente a prescindere dai risultati. Quindi le fee di gestione su investimenti pubblici vanno drasticamente abbattute o azzerate (oggi sono il 2/2,5% all’anno, che sulla vita tipica di un fondo equivalgono al 20-25% del capitale messo a disposizione, valori inaccettabili per un investimento pubblico).
Che succeda tutto questo mi sembra poco probabile. Quindi tra le due ipotesi dell’articolo di Alberto (“ora o mai più”) ahimè propendo per la seconda“
Continuiamo la discussione, anche qui. Perché il mondo delle startup serve all’Italia e al suo futuro e non può essere una nicchia separata dal resto del paese.
(*) Sotto uno dei tanti commenti provenienti dalla rete sulla utilizzabilità del blog su cui scrivo:
“P.S. Alberto Onetti il sito del Corriere della Sera è scandaloso. Ero sul tuo post e continuava ad andare sulla home poi ritornava sul tuo post…avanti e indietro…mille volte…. Scrivi pure su Medium e tagga le persone chissà magari rendiamo il tutto un po’ più interattivo e forward looking“
Io vivo a Pavia (quando non sono in transito). Ricordo che una mattina di qualche anno fa, finita la mia partita di tennis delle 7.30, mi ero fermato a fare colazione in un locale appena aperto, “Miccone”, in Borgo Ticino. “Ma lei è Alberto Onetti di Mind the Bridge?”. Questa è la domanda che mi ha fatto la persona dietro al banco mentre stavo ordinando un cappuccino. Disclaimer: non mi capita spesso e difatti mi ricordo l’episodio.
La persona dall’altra parte del banco era Giuseppe Dabbene, un ragazzo allora venticinquenne, che nel tempo ho seguito nelle sue vicende imprenditoriali che lo hanno portato dalla nebbiosa Pavia alla parimenti nebbiosa Londra dove si trova tuttora.
Credo che sia interessante raccontare la storia di Giuseppe perché riassume bene lo spirito di chi è imprenditore, ossia di chi vive in una tensione continua tra il pensare in grande e la complessità della realizzazione dei propri progetti.
Giuseppe, cosa è il Miccone e come è nata questa avventura imprenditoriale? Tutto è nato nel novembre 2013 quando io e la mia famiglia avevamo capito che il mondo del food in Italia stava cambiando e si stava sempre più ammodernando e specializzando. La mia famiglia proveniva dal mondo del commercio italiano dal 1977, quel commercio fatto di gestione familiare che non rispecchiava le logiche aziendali moderne. Da quando ho iniziato questo cambiamento ho capito che bisognava circondarsi di esperti del settore food e costruire un team che creasse non un semplice locale, ma un vero e proprio brand. Abbiamo quindi studiato la tradizione enogastronomica pavese e abbiamo capito che il Miccone rappresentava un simbolo per questo territorio. Il Miccone è infatti il pane della tradizione della provincia di Pavia. Abbiamo fatto sì che il Miccone fosse il core-business del progetto, attorno ad esso infatti abbiamo strutturato tutto il menù e l’offerta che proponiamo durante tutto l’arco della giornata. Il Miccone viene tagliato in fette e da queste fette nascono i nostri “Micconi”, panini creati utilizzando per il 90% ingredienti del territorio come ad esempio salumi, formaggi e confetture tipiche, ma anche ingredienti che rispecchiano i trend del momento come ad esempio l’avocado, sempre abbinato a prodotti locali. Oltre che per gli ingredienti utilizzati, i “Micconi” sono particolari perché la fetta di pane Miccone viene piegata e da questa piega nasce il nostro logo ed il nostro motto “La piega di pane pavese”. I nostri Micconi vengono serviti con vino e birra artigianale dell’Oltrepò pavese. All’interno del format Miccone troviamo anche la caffetteria che rispecchia la metodologia e le tecniche SCAA di specialty coffee. Tostiamo direttamente il caffè all’interno del negozio. Creiamo espressi e cappuccini che abbiniamo con la torta di pane fatta con il Miccone oppure utilizzando fette di Miccone insieme alle marmellate locali. Tutto il format è stato creato per essere replicabile e scalabile, infatti tutto il menù è ingegnerizzato e rispecchia le logiche del food cost. Il controllo di gestione è inoltre affidato a un sistema di cassa dove 24h su 24h possiamo monitorare le performance del locale.
Come sono andati questi 3 anni a Pavia? Fin dal primo giorno di apertura, il 5 Settembre 2014, l’attività è andata molto bene. In 3 anni abbiamo fatturato oltre €650.000 e nell’ultimo anno abbiamo fatturato €50.000 in più rispetto al 2016. Considerando il mercato pavese di 70.000 abitanti, il cui 50% circa è sopra i 60 anni di età, penso che sia un ottimo risultato. La vera difficoltà è quella di operare in una micro economia, in un periodo di crisi, dove la burocrazia ed il sistema molto spesso non sono dalla parte dell’imprenditore. Ne ho toccato con mano alla fine del 2016 dove alcuni membri del vecchio team non remavano più dalla parte dell’azienda a abbiamo rischiato di chiudere. Nessuno mi ha dato una mano e mi sono dovuto rialzare da solo, prendendo delle decisioni molto importanti. Ogni piccolo errore è fatale per la sopravvivenza dell’azienda. Applicare tale modello di successo in una realtà come Londra dove ci sono 10milioni di persone con molti fattori a vantaggio per l’imprenditore è molto stimolante e positivo per il progetto Miccone.
Perché Londra? Londra è sempre stata una città che amavo fin da quando avevo 14 anni, nel 2015 ci sono ritornato e mi sono subito accorto che alcune tecniche utilizzate in molti locali, come ad esempio tostare il caffè all’interno del locale, noi a Pavia la facevamo da più di un anno. Dopo quel primo viaggio sono ritornato nel Novembre 2015 e sono rimasto per un mese per essere sicuro che ci sarebbe stato mercato anche per noi, ho analizzato molto le zone, altri format di food e da questa esperienza ho avuto un’ulteriore prova che anche per noi c’era la possibilità di avere mercato. Oltre che da questi fattori mi sono reso subito conto che la burocrazia, la facilità di apertura della società, la pressione fiscale ridotta avrebbero senza dubbio agevolato l’apertura del format. Nel febbraio del 2016 ho deciso quindi di trasferirmi definitivamente a Londra e cambiare per sempre la mia vita, quella della mia famiglia e anche quella del mio progetto. Pur avendo poche conoscenze, nella prima settimana in cui mi sono trasferito ho trovato lavoro presso un Independent Coffee Shop. In quei mesi mi sono aperto a tutte le possibilità che Londra mi presentava e nell’aprile ho aperto il primo pop-up vicino Tower of London solo la sera per testare se il Miccone insieme a vini e birra artigianale avrebbero funzionato a Londra Da questa esperienza che è durata un paio di mesi, ho capito che il Miccone sarebbe potuto piacere piacere non solo agli italiani presenti su Londra (500.000), ma soprattutto agli inglesi. Ad agosto ho deciso di trasferire la nostra Ape Truck da Pavia a Londra all’interno del Mercato Metropolitano per continuare questa avventura. Il tutto ha avuto un riscontro positivo che ci ha portati poi a decidere di vendere l’ape e di concentrarci sull’apertura di punti vendita su Londra.
Perché l’Ape Truck non ha funzionato? Me la ricordo davanti all’ufficio ed era iconica… Il problema principale dell’Ape Truck era l’assenza di spazio. Siamo tuttavia rimasti molto contenti perché grazie a questa esperienza abbiamo saputo ottimizzare le procedure di preparazione dei “Micconi” e dei taglieri. Tutto questo know-how è stato poi portato nel locale di Pavia con una riduzione delle tempistiche di attesa sul servizio e una maggiore armonia nella preparazione. I problemi che abbiamo riscontrato in Italia sono stati sia di carattere burocratico (alcuni enti non sapevano nemmeno cosa fosse un Ape Truck) sia nella gestione degli eventi, il cui costo la maggior parte risultava essere molto costoso, senza nessuna garanzia di ritorno dell’investimento iniziale. A Londra, invece, abbiamo capito che per il nostro format – che si basa soprattutto sull’alta qualità di tutti i nostri prodotti – lo street food non riusciva a trasmettere a 360° l’esperienza che si prova mangiando dentro un locale Miccone. Dall’esperienza però sono nate nuove ricette di “Micconi” e abbiamo avuto un elevato numero di feedback positivi dai clienti inglesi in merito a tutti i prodotti che servivamo, dai “Micconi” al vino e birra dell’Oltrepò Pavese. Tutto questo ci ha dato la consapevolezza che il futuro del Miccone ha una sola strada: diventare grande.
Cosa altro hai imparato da questi anni a Londra che potrebbe essere utile per chi come te volesse avviare una attività lì? In questi anni ho imparato che Londra è una città che offre tante possibilità di fare business e di conoscere nuove persone. Ti può portare in alto ma bisogna essere preparati. A chi pensa di venire qui in cerca di fortuna, sbaglia in partenza. Se un imprenditore ha già un progetto minimamente collaudato in Italia, allora le strade per diventare grandi ci sono. Naturalmente bisogna allenarsi tutti i giorni e cogliere tutte le occasioni che si presentano. La velocità con cui cambiano le cose qui è 10 volte superiore rispetto all’Italia. Avere un’azienda snella e facilmente modificabile per adattarsi al mercato e alle esigenze è la cosa migliore. Bisogna quindi pensare a mettersi continuamente in gioco e reinventarsi sempre. La burocrazia è pari a 0: per una licenza di food ho aspettato 3 giorni e per aprire la società ho impiegato1 giorno con una sterlina, il tutto on-line.
Raccontaci l’esperienza del crowdfunding. Nell’agosto 2017 abbiamo deciso di intraprendere l’esperienza del crowdfunding: abbiamo quindi creato tutto il materiale necessario per presentarci online (video, foto etc.) e ci siamo divertiti molto nel farlo. Abbiamo lanciato la campagna l’8 Dicembre 2017 raccogliendo in 30 giorni 86.000€, purtroppo non sufficienti a raggiungere il risultato che ci eravamo prefissati. Tutta questa esperienza ci ha portato però molta pubblicità e ha fatto conoscere al grande pubblico il nostro progetto oltre che la possibilità di interloquire con possibili investitori.
Quali sono ora i progetti per il futuro? Dopo l’avventura del crowdfunding ora siamo alla ricerca di partner finanziari che ci portino oltre che a capitali anche competenze per aprire il primo punto vendita a Londra e da lì scalare il progetto. Il nostro sogno è diventare grandi all’estero con molte aperture sia a Londra, ma anche in altre capitali europee. Aprire il mercato online, con l’e-commerce. Poi tornare a investire in Italia, aprendo altri punti vendita, comprare alcuni produttori e far diventare lo store di Pavia il vero headquarter con uffici che si occupino di marketing ecc. Negli Stati Uniti il fallimento è apprezzato, chi non ha mai toccato con mano il fondo e si è rialzato fatica a ricevere investimenti. Da noi è il contrario. Io in qualche misura ho fallito, o meglio, alla fine del 2016 ci sono andato molto vicino. L’idea dell’Ape Truck non ha funzionato e il progetto di crowdfunding alla fine non ci ha portato le risorse necessarie. Ma ho imparato e mi sono sempre rialzato e tutt’oggi continuo questo progetto. Voglio che questo progetto diventi grande e restituisca vantaggi all’Italia e alla mia Pavia, visto che la maggior parte dei fornitori ha base qui. Vorrei che fosse un esempio positivo di rivincita di un territorio che per molti decenni si è dimenticato del suo splendore e delle potenzialità che ha.
Fare startup e fare impresa in genere è difficile.
Perchè ti mette spesso (molto più di frequente di quello che sembri da fuori) in situazioni da cui è molto complicato uscire e trovare una soluzione.
Il tutto è aggravato dal fatto che queste situazioni – con le relative decisioni – vengono vissute in totale solitudine.
Perchè non si possono condividere in azienda (genererebbe un panico diffuso che renderebbe ulteriormente più difficile la soluzione).
E nessuno, al di fuori dell’imprenditore, ha tutti gli elementi per prendere la decisione, giusta o sbagliata che sia.
Quindi chiedere consiglio, anche quando possibile, non è realmente utile, se non per raccogliere prospettive diverse ed elementi di valutazione aggiuntivi.
Ma, alla fine, la scelta finale è solo tua.
Come dicono gli U2:
“If I could, I’d make it alright, alright. Nothing’s stopping you except what’s inside I can help you, but it’s your fight, your fight.”
Quindi, non ti resta che “Get Out of your own way“.
Caro Ferruccio, abbiamo letto con attenzione il tuo editoriale e ne condividiamo i messaggi principali.
Sono passati cinque anni, forse anche qualcuno in più (se ti ricordi, ilprimo Venture Camp ospitato da te in Sala Buzzati al Corriere della Sera risale al 2009), e grandi risultati all’orizzonte non se ne intravedono. L’unica certezza (provata dalla nostra ultima ricerca “Scaleup Europe” di cui a dicembre pubblicheremo il focus sull’Italia) è che il nostro paese ha un gap spaventoso con il resto dell’Europa, senza scomodare Stati Uniti e Silicon Valley. Non solo nei confronti del Regno Unito, di gran lunga, la locomotiva dell’innovazione in Europa (hanno oltre 10 voltepiù scaleup di noi), ma anche di Francia e Germania. E, se confrontiamo le dimensioni relative, l’Italia batte il passo anche nei confronti dei paesi scandinavi e di paesi come Belgio, Olanda e Portogallo.
I dati riflettono un’evidenza: siamo partiti tardi e andiamo troppo piano (i dati sugli investimenti che menzioni scoloriscono non solo di fronte al piano Macron, ma anche nei confronti di quanto fatto dalla Francia con Hollande e dalla stessa Spagna).
Però, c’è un però. Che va considerato prima di buttare via, con la tanta acqua sporca, il bimbo startup nostrano. Il però è che siamo partiti.
Dietro alla moda, alle dichiarazioni di facciata, ai programmi di marketing di alcune aziende, ai convegni, c’è una Nuova Italia che (pian piano) avanza e inizia a produrre i primi risultati in termini di scaleup, termine strano che usiamo per separare dalle intenzioni di impresa quelle che incominciano a produrre risultati tangibili, ossia occupazione, fatturato e crescita. Dietro ai pionieri Octo Telematics, 7 Pixel, Funambol, Decisyon ci sono ora società come Moneyfarm, Musement, Facility Live, Mosaicoon, Cloud4Wi, Satispay, BeMyEye, Shopfully, Beintoo e Buzzoole, che si stanno affermando a livello internazionale.
E dietro a queste, ci sono energia e aria nuova. Che si respira non solo nelle grandi città (la diatriba tra Roma e Milano è stucchevole quanto inutile), ma anche e soprattutto nella provincia, al Sud e nelle Isole. Vediamo questa energia nei ragazzi che arrivano da ogni parte di Italia per partecipare alla nostra School a San Francisco e che non hanno problemi a confrontarsi in inglese con startup di tutto il mondo. Sono sempre di più e sono sempre più motivati e sempre meno propensi a lamentarsi su cosa manca in Italia ma pronti a rimboccarsi le maniche e fare succedere cose (o almeno a provarci).
Questa è la base su cui costruire una nuova Italia. Base che sta emergendo da questa generazione, dopo che le generazioni precedenti avevano – non sappiamo esattamente perché – smarrito la tensione imprenditoriale.
Ma non aspettiamoci da questa base di vedere crescere grattacieli se non buttiamo cemento in quantità. E il cemento si chiama venture capital, merce quanto mai rara alle nostre latitudini.
Ad maiora (almeno si spera),
Alberto Onetti e Marco Marinucci
Le startup sono progetti di azienda, lavori in corso. C’è poco da mostrare. Quindi l’unica via per uscire dall’anonimato e dalla massa (sì, c’è una montagna di startup o tentativi di startup, per chi non se ne fosse accorto) e per suscitare interesse e fare passi avanti è parlare e fare parlare della propria startup. Ogni occasione è buona per fare parlare di te, dice il saggio.
Ma, c’è un ma. Non è sempre vero. E, soprattutto, non è una buona idea annunciare ai quattro venti (stampa inclusa) un seed round (ossia di avere raccolto quattro soldi da amici, parenti, incubatori, acceleratori o investitori di seconda categoria).
“It’s a stupid strategic mistake”
calca la mano Tim Dempsey (venture capital di Epiphany Capital).
Perché???
Rimando alla lettura del post di Tim per un’analisi completa.
In sintesi, non è cosa furba perché:
alimenti aspettative in un momento in cui non sei nelle condizioni di realizzarle. Nello specifico attiri l’attenzione di investitori seri in un momento in cui non sei pronto a incontrarli e ti bruci contatti per quando avrai bisogno di vederli (si può riadattare la storia del “al lupo al lupo” per le startup);
attiri l’attenzione di fornitori (avvocati, fornitori di servizi, …) che, per mestiere, sono attirati da chi ha quattro soldi da spendere. Ciò determina discrete perdite di tempo (mail, richieste, contatti, …) in un momento dove devi essere concentrato al 110% a capire come portare la tua idea al livello successivo;
lasci delle “tracce” che potranno essere usate contro di te (l’80-90% delle startup in fase di seed non va da nessuna parte o, nel migliore dei casi, cambia totalmente strada – fa pivoting in gergo. Quindi dire: faremo, ci proponiamo, … non è una buona idea;
bruci il tuo “press capital” nel momento sbagliato. Hai bisogno di avere l’attenzione della stampa e del mondo non quando hai appena raccolto i soldi ma quando sei in procinto di farlo.
Era il 2012 quando D-Orbit faceva il suo ingresso nella nostra Startup School a San Francisco. E contrariamente a molti progetti arenatisi nel giro di qualche anno dopo il boom iniziale, in questi 6 anni l’azienda ha continuato piano piano a conseguire piccoli-grandi traguardi. Fino a che quest’anno, il 23 giugno alle 6.00 italiane, i suoi fondatori Luca Rossettini e Renato Panesi si sono potuti finalmente abbracciare, non senza un filo di commozione, assistendo dal Centro di controllo missione di Fino Mornasco alla buona riuscita del lancio in orbita del loro primo satellite.
D-Sat sarà infatti il primo satellite nella storia che sarà rimosso in maniera diretta e controllata alla fine della sua missione grazie a un sistema propulsivo intelligente (D-Orbit Decommissioning Device – D3) dedicato e integrato a bordo. Questo dimostra che tutti i satelliti lanciati da ora in poi potrebbero rientrare in maniera diretta a fine vita o in caso di avaria, mitigando sostanzialmente l’incremento esponenziale dei detriti spaziali. Ma non si fermerà a questo: durante il suo lungo viaggio, D-Sat effettuerà una serie di esperimenti e raccoglierà dati in un’orbita eliosincrona di 500 km di altitudine per poi rientrare e autodistruggersi al di sopra dell’oceano, lontano da aree abitate.
La prova del nove per D-Orbit, un test di affidabilità della sua tecnologia prima della sua commercializzazione. Ma per capire meglio cosa sia successo in questi anni e quali saranno le prossime mosse di D-Orbit abbiamo incontrato nuovamente Renato Panesi.
Ciao Renato e ben ritrovato. Sono cambiate un po’ di cose dall’ultima volta in cui ci siamo visti, mi sa. Ci vuoi raccontare? Eh, direi proprio di sì. Innanzitutto a livello aziendale. Ti basti pensare che siamo partiti a marzo 2011 con 4 persone e oggi siamo in 32 suddivisi in quattro sedi, di cui due in Italia: una presso l’incubatore dell’Università di Firenze (l’ufficio amministrativo) e una a Fino Mornasco, la sede operativa principale inaugurata a luglio del 2016 con 2500 mq. È qui che abbiamo il grosso della nostra forza lavoro. Tutto il ramo software si trova invece nella nostra sede in Portogallo, che abbiamo aperto dopo aver vinto una startup competition locale e grazie al supporto di Caixa Capital che conosci bene. Nata come software house, oggi D-Orbit Portugal è una società autonoma che vende anche ad altri clienti, tra i quali l’Agenzia Spaziale Europea (ESA). In più abbiamo aperto un ufficio commerciale a Washington DC. Insomma non siamo più una startup, ma un’azienda solida che si regge sulle proprie gambe.
Per fare tutto questo immagino vi siate dedicati a una intensa attività di fundraising… Oltre a 2 milioni di euro ottenuti grazie a un bando Horizon2020 vinto due anni fa e 200mila euro ottenuti in Portogallo, a oggi abbiamo raccolto 5 milioni di euro in equity mentre il resto è arrivato dai contratti di vendita. L’attività di fundraising comunque va avanti per espandere la squadra commerciale e la nostra presenza negli Stati Uniti, nonché per rinforzare il comparto tecnico e la produzione.
E oggi finalmente il grande successo. Ci vuoi parlare della missione D-SAT? In cosa consiste? Dal punto di vista tecnico, D-Sat è un CubeSat da tre unità, progettato, costruito e operato da D-Orbit. Lo abbiamo lanciato il 23 giugno alle 6.00 ora italiana dal Satish Dhawan Space Centre, in India, a bordo di un razzo PSLV: i vari satelliti a bordo si sono separati correttamente circa 30 minuti dopo la partenza e si sono inseriti nell’orbita polare prevista. D-Sat grazie alla sua orbita polare e al contributo della rotazione della Terra, riesce a coprire tutto il mondo. In particolare sull’Italia abbiamo 4 finestre di visibilità al giorno, tipicamente 2 la mattina e 2 la sera a orari variabili ma compresi nelle fasce 9-12 e 20-23. Ora, Il primo successo dellamissione non è stato tanto la riuscita del lancio, quanto l’essere riusciti a comunicare con il satellite fin da subito. Un buon contatto dura circa 10 minuti e noi siamo riusciti al primo passaggio a impostarlo, a impartire ordini e a ricevere informazioni. L’health-check, che riguarda il funzionamento di tutti dispositivi e sottosistemi di bordo, dal gps alle batterie, dal sistema avionico all’alimentazione e alla fotocamera, è andato a buon fine. Abbiamo anche ricevuto le prime immagini ed è stato tutto molto emozionante. In seguito, sono iniziati gli esperimenti.
Immagini dalla missione D-Sat: North Africa
Quale è l’obiettivo della missione? Innanzitutto dimostrare che è possibile far rientrare un satellite sulla terra attraverso un dispositivo propulsivo intelligente che può essere adattato a ogni tipo di satellite. Il suo motore a combustibile solido è progettato per eseguire una manovra ad alta potenza per rimuovere rapidamente un satellite dalla sua orbita. La sua unità di controllo indipendente e il suo sistema di comunicazione integrato garantiscono che il sistema possa essere attivato e controllato da terra anche se il satellite dovesse smettere di funzionare a causa di un malfunzionamento. In secondo luogo compiere una serie di esperimenti di raccolta dati in orbita.
Ci vuoi spiegare meglio questo ultimo punto?
Certo. D-Sat include tre esperimenti: SatAlert, realizzato in collaborazione con l’Università di Firenze, è un servizio di instant messaging che entra in funzione nel tipico scenario di emergenza in cui le centrali operative di agenzie di protezione civile devono comunicare istruzioni in aree colpite da disastri naturali che hanno compromesso le infrastrutture di telecomunicazione terrestri. DeCas-Debris Collision Alerting System, sviluppato con Aviasonic, monitora invece il footprint generato dai detriti che si formano quando un satellite viene a contatto con gli strati alti dell’atmosfera in fase di rientro e ne analizza la distribuzione, cosa molto utile ad esempio per la gestione del traffico aereo soprattutto in caso di detriti di grandi dimensioni. Atmosphere Analyzer intende infine analizzare dati atmosferici nella bassa ionosfera, regione compresa tra gli 80 km e 150 km poco studiata perché normalmente inaccessibile tanto da satelliti quanto da palloni stratosferici.
Avete lanciato anche una campagna di crowdfunding, con quale scopo? Creare awareness in generale sul problema dei detriti spaziali e finanziare il prolungamento della nostra missione per continuare a raccogliere dati (lo sviluppo del dispositivo è stato infatti autofinanziato mentre i sensori di bordo ci sono stati forniti dalle Università e dai partner degli esperimenti). La missione dimostrerà che la nostra tecnologia è flight-proven e a garanzia della scalabilità tecnologica su satelliti di classi superiori abbiamo utilizzato componenti conformi a standard NASA ed ESA più severi.
Quale è l’aspetto di tutta la missione di cui vai più fiero? Il team: al di là dei senior advisor, le persone del team hanno un’età media al di sotto dei 30 anni euna grande passione. L’ingegneria aerospaziale non è un percorso che si sceglie senza una passione precisa, quasi una scelta di vita, e non capita a tutti gli ingegneri di costruire un satellite e inviarlo in orbita, per giunta così giovani. Temevamo di poter perdere molte persone lunga la nostra strada, perché per lavorare in una startup occorre la mentalità giusta che non è facile trovare. Stiamo invece sperimentando il contrario e continuiamo a ricevere cv ogni giorno.
Il Team di D-Orbit
Le difficoltà incontrate? Le lentezze burocratiche sono state per noi le vere difficoltà, perché in realtà abbiamo sempre avuto un forte appoggio da tutti gli stakeholder, dagli investitori alle istituzioni, sia italiane, sia europee, fino alle banche, con Unicredit in prima fila. Purtroppo a volte i processi richiedono tempo per via delle lungaggini burocratiche che abbiamo nel nostro paese e le settimane diventano mesi.
Come e quando è previsto il rientro del satellite? Stiamo valutando, di sicuro non prima di settembre per via della durata degli esperimenti. Il giorno preciso dipenderà dalla quantità e qualità dei dati che raccoglieremo. Questi esperimenti hanno risvolti concreti e ad alto valore di utilità sociale, ed è per questo che sono per noi così importanti. Il rientro sarà controllato lungo una traiettoria decisa da noi. Dal punto di vista ingegneristico, affinché il rientro abbia successo, diverse operazioni in sequenza dovranno andare tutte bene: non si tratterà dunque soltanto della sola manovra di rientro. Essendo di piccole dimensioni e pesando circa 5kg, D-Sat si incendierà del tutto e si disintegrerà sopra un’area non popolata ma fino a 60/70km di quota dovremmo continuare a ricevere messaggi.
Prossimi step? Aspettiamo il prossimo round di investimento per ampliare la squadra commerciale, aumentare la presenza negli Stati Uniti, rinforzare la squadra tecnica e comprare i materiali e i macchinari che ci occorrono. Il nostro primo obiettivo è di riuscire a installare un sistema di questo tipo nella maggior parte dei nuovi satelliti da lanciarsi d’ora in poi, in maniera progressiva e riuscendo a conquistare una fetta rilevante del mercato entro il 2025. E poi c’è la nostra vision di lungo periodo: non solo rimuovere i detriti ma trasportare cose e persone nello spazio.
Qualche giorno fa, tra i tanti, mi è arrivato questo messaggio:
“Ho visto che lei si occupa di startup. Io, insieme al mio collaboratore, saremmo intenzionati ad aprire una startup. Abbiamo avuto una grande idea ma, essendo ancora studenti, non sappiamo e non abbiamo i modi per iniziarla. Soprattutto trovare dei programmatori app disposti a collaborare sembra un miraggio. Mi piacerebbe avere qualche consiglio“.
Gli ho risposto:
“L’unico consiglio che posso darvi è di provarci e ottenere dei primi risultati. Nessuno sarà disposto aiutarvi fino a che non avete raggiunto qualcosa di tangibile”.
“Ma provarci come se abbiamo in tasca 100 euro? Io abito a xxxx e andare a Bologna ad una convention di startup mi costa 20 euro andata e ritorno, come facciamo ? C’è bisogno bisogno di più altruismo da parte degli investitori…”.
Al di là del ragionevole scoramento (immediatamente passato, visto che chiosa dicendo: “preferiamo fallire piuttosto che non provarci“) il punto chiave è l’ultimo.
Gli investitori non sono dei mecenati, non devono essere generosi o altruisti.
Devono (sottolineo devono) investire su cose che ragionevolmente consentano loro di fare più soldi.
Sta a chi fa impresa o startup convincerli. E per convincerli servono i risultati, la traction, se preferite l’inglese. Perché, come è ben sottolineato su The Startup Journey:
“Don’t count on funding/investment to get initial users”
Startupper (o presunti tali): da leggere e ripetere dieci volte, mattino e sera.
Il BTW di Alberto Onetti
Commenti su startup, innovation, scaleup, entrepreneurship dal Chairman di Mind the Bridge.