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Ieri a Roma in occasione dello Startup Day organizzato dall’AGI abbiamo presentato i dati sull’Italia delle scaleup, ossia sui risultati visibili (leggasi imprese) che ad oggi l’ecosistema delle startup è stato in grado di produrre.

I dati prodotti nell’ambito di Startup Europe Partnership restituiscono una immagine impietosa del Bel Paese, che mostra un ritardo temo incolmabile nei confronti dei principali paesi europei e che è a rischio di sorpasso anche da parte di paesi più piccoli e con minore tradizione industriale del nostro. Corriamo un chiaro rischio di fuga degli imprenditori e delle startup, dopo aver subito per anni quella dei cervelli.

Vi lascio l’approfondimento dei dati e mi concentro su quanto emerso dal dibattito, moderato da Riccardo Luna, che ha seguito la presentazione del rapporto.

Al Tempio Adriano a Roma c’erano difatti tanti protagonisti di questo sistema startup, tanti amici e compagni di tante battaglie nel nome delle startup.

Tutti, come il sottoscritto, in qualche misura tanto frustrati quanto corresponsabili di questo fallimento.

Sì, come ha ben detto Massimiliano Magrini, non è stata una riunione sindacale del movimento startup perché non avrebbe avuto senso.

È stata una analisi collettiva di quanto di giusto non è stato fatto e di quanto si potrebbe ancora fare per far decollare un aereo affossato sulla pista.

È stato il riconoscimento del fallimento di anni di duro lavoro.

Fallimento nel non essere riusciti a spiegare, come ha ammesso Marco Bicocchi Pichi, che le startup non sono importanti per se stesse, ma per il paese.

E la prova di ciò è stata che il mondo della politica, invitato a questo incontro, era largamente assente.

Sorge il dubbio che tale assenza certifichi, come ha sottolineato Fausto Boni, l’evidente disinteresse del mondo della politica nei confronti di startup e innovazione. Probabile.

La realtà, meno digeribile da un mondo che ha costruito il proprio manifesto nella capacità di “pitchare” in modo chiaro cosa si vuole fare, è  la nostra incapacità di comunicare alla gente perché le startup sono importanti e a cosa servano. “Se manca una domanda dal paese per le startup, manca la sanzione politica per chi non se ne occupa”, ha detto, senza diplomazia, Antonio Palmieri – “E perché quindi sorprendersi se il mondo della politica non se ne occupa? Fate sentire la vostra voce in modo chiaro, se volete avere una opportunità che qualcuno vi ascolti”. Touché.

Che serve allora?

Una cosa: capitali dal pubblico. Qualche miliardo, come ha proposto Salvo Mizzi, non spiccioli. In questi anni abbiamo migliorato la cornice regolamentare ma manca il quadro. Non si può pensare di giocare con i bastoncini dello Shangai quando gli altri muovono una clave. E non c’è da vergognarsi nel chiederli, ha detto Mauro Del Rio.  Soldi sì, “ma non investiti a pioggia in una logica simil-democristiana, soldi puntati su pochi cavalli vincenti”, ha chiesto Davide Dattoli. Soldi da cui tutti quelli intorno al tavolo non devono trarre benefici. Chiedere investimenti pubblici e farsi pagare management fee per investirli o caricare fee per servizi è semplicemente non corretto e distrugge la fiducia, che è l’altro pezzo che è probabilmente venuto a mancare nel nostro ecosistema, come ha ricordato Gianluca Dettori. E la cosa suona strana visto che il mercato delle startup è costruito sulla fiducia.

Quindi ora o mai più. Perché il tempo, più che i capitali, è la vera risorsa scarsa. Solo così startup e innovazione da emergenza nazionale possono diventare una opportunità nazionale, come ha ricordato Marco Gay.

Altrimenti resteranno solo le buone intenzioni in un paese avviato sulla strada del declino.

Un’altra startup italiana si prepara al grande salto verso l’internazionalizzazione. Si tratta di  Dominion Hosting Holding (DHH), fondata lo scorso anno da Giandomenico (Nico) Sica, 34 anni, laureato in filosofia e già alla sua terza IPO, e Antonio Baldassarra, fondatore di Seeweb e tra i primi a occuparsi di venture capital dal punto di vista industriale fin dai primi anni 2000 (aveva investito 150k euro in Docebo, acquisita di recente dal fondo canadese Klass Capital).

Dominion intende proporsi come il principale operatore nel campo del web hosting e del software as a service nei mercati emergenti europei, ovvero in tutti quei paesi del Vecchio Continente ancora un passo indietro rispetto a nazioni come Francia e Germania. A fine giugno è partito il collocamento di azioni ordinarie e warrant con roadshow che resterà aperto fino al 22 luglio.

Abbiamo incontrato Nico, oggi Presidente di Dominion, per farci raccontare qualcosa di più di questo momento “di salto” che sta vivendo l’azienda.

 

 

 

 

 

 

 

Nico, come è cominciata l’avventura di Dominion?

Questa avventura nasce il 15 luglio dello scorso anno dalla volontà di fare qualcosa insieme ad Antonio. L’idea era proprio quella di dare vita alla prima piattaforma internet per i paesi emergenti in Europa che potesse aiutare le piccole e medie imprese presenti in questi mercati a costruire la propria presenza online e avviare il processo di trasformazione digitale. Tutto questo fornendo loro supporto nella registrazione del nome a dominio (sono oltre 200.000 i domini registrati con DHH ad oggi), nella costruzione del sito internet e nel miglioramento della produttività aziendale attraverso l’utilizzo di strumenti digitali.

Quali sono stati i primi passi?

Abbiamo iniziato focalizzandoci sull’area adriatica e dei Balcani, primo centro di interesse su cui abbiamo investito circa 1 milione e mezzo di euro da Seaweb (di cui 840k di equity e il resto mediante finanziamenti bancari). Successivamente abbiamo iniziato a fare acquisizioni, la prima delle quali ha riguardato il principale operatore di web hosting sloveno.

Da quella avventura ci siamo portati in pancia Uroš e Matija, entrambi informatici e imprenditori che oggi si occupano della gestione operativa dell’azienda e della strategia di sviluppo delle partecipate. Quindi ci siamo orientati verso la Croazia e poi verso l’Italia, con l’acquisizione di Tophost. Così facendo abbiamo messo fin da subito in piedi un gruppo di 45 persone che fattura 3.5 milioni di euro l’anno, il 67% del quale fuori dall’Italia, con 523k euro di EBITDA, 236k euro di utile netto e 90k clienti.

Questo il primo passo, quindi. Poi come avete proceduto?

Successivamente abbiamo continuato la nostra espansione ottimizzando la parte prodotto, l’offerta commerciale e la strategia marketing. Oggi necessitiamo di più capitali se vogliamo continuare a crescere per acquisizioni: da qui la decisione di quotarci sulla borsa AIM Italia.

Da chi è composto il team di quotazione?

Advance SIM (Nomad), BDO (Società di Revisione), Eunomia (Studio Legale), EnVent Capital Markets (Global Coordinator), CFO SIM (Joint Bookrunner).

Quali sono i termini della quotazione? 

Dominion Hosting Holding è una PMI innovativa: non appena entrerà in vigore il decreto attuativo – atteso nei prossimi mesi – gli investitori italiani in possesso dei requisiti che avranno sottoscritto la nostra quotazione in Borsa otterranno un beneficio fiscale del 19-20% sull’investimento: il 19% di detrazione per le persone fisiche fino a un investimento massimo di 500.000 Euro e il 20% di deduzione fiscale per le persone giuridiche fino a un investimento massimo di 1,8 milioni di Euro. Inoltre, gli investitori che sottoscrivono le nostre azioni in fase di quotazione ricevono un warrant gratuito per ogni azione sottoscritta e una bonus share del 20% se si impegneranno a tenere le azioni per tre anni.

Come valuti il tuo percorso intrapreso fino a oggi?

Quando mi sono laureato in filosofia nel 2003 non pensavo ovviamente di intraprendere un cammino come questo. Nel 2006 ho cominciato a studiare da autodidatta il mondo del venture capital, nel 2008 ho avuto l’opportunità di partecipare alla creazione di una startup, mentre nel 2012 sono diventato socio di Digital Magics, incubatore di startup digitali con cui ci siamo quotati in Borsa nel 2013. Successivamente, nel 2014, sono diventato partner di MailUp e anche in questo caso ci siamo quotati in Borsa. Lo scenario ha cominciato a farsi sempre più chiaro e oggi mi ritrovo alla mia terza IPO. Affronto un progetto nuovo ogni 2-3 anni e lavoro a cavallo tra l’imprenditoria e il venture capital.

Progetti per il futuro?

Al momento sono molto contento dell’andamento del nostro percorso di quotazione e sorpreso dal crescente interesse che il mercato sta dimostrando nei confronti del nostro progetto imprenditoriale, nonostante la tensione dei mercati finanziari dell’ultimo periodo. Per il futuro c’è già un progetto di incubatore di realtà SaaS e l’avvio di acquisizioni su mercati contigui.

Non manca dunque la carne al fuoco, ma sia a me che ai miei soci piace affrontare un progetto per volta.

La prima app mobile che elimina gli occhiali da lettura

Ma oggi cosa non è possibile fare tramite il nostro smartphone? Davvero poche cose restano tagliate fuori. Lavoro, entertainment, relazioni sociali, open pubblica amministrazione, servizi di varia natura, tutto è mediato dall’uso del nostro cellulare. Anche l’healthcare non ne è immune. Pensiamo alle App per il fitness o ai device wearable connessi al nostro cellulare: il nostro stato di salute viene decodificato in cifre e statistiche e quindi in suggerimenti su come ridurre i tempi di corsa, bruciare in maniera efficiente le calorie, migliorare il nostro peso-forma. Un processo di analisi “mediato” dalla lettura dei dati attraverso software contenuti nei nostri cellulari, ormai piccole intelligenze formato tascabile verso cui abbiamo maturato una certa dose di fiducia.

Ma se vi dicessimo che da oggi potete anche migliorare la vostra vista, “leggendo” uno smartphone? Impossibile? Invece è già realtà.
Viene lanciata oggi infatti anche in Italia GlassesOff, applicazione dell’azienda israeliana InnoVision Labs disponibile sull’App Store e il Play Store che promette a chi la scarica di eliminare completamente la dipendenza dagli occhiali da lettura semplicemente allenandosi tre volte a settimana (in sessioni di 10-12 minuti) per due-tre mesi.

Una promessa a prima vista (per stare in tema) impegnativa ma corroborata da una massiccia base di studi scientifici (tra cui 4 brevetti e una ricerca condotta alla Berkeley University che l’ha validata), dall’evidenza dei risultati e dal successo che ha riscosso dapprima negli Stati Uniti, poi in Francia (dove in soli 5 mesi ha spopolato diventando la app n.1 in ambito medico e finendo citati in prima pagina su Le Parisien) e in Belgio.

Ne siamo venuti a conoscenza tramite Samuel Raccah, ingegnere gestionale italiano di soli 23 anni che dopo aver conseguito un master in Israele è stato chiamato a guidare le Operations di GlassesOff. Fondata nel 2007, vi lavorano oggi 35 persone suddivise tra gli uffici di New York e Tel Aviv, dove ha sede tutta la R&D. La sua storia ci ha incuriositi e così abbiamo deciso di saperne di più facendo due chiacchiere con il CEO Nimrod Madar. 

LEGGI L’INTERVISTA

Mercoledì (il 27) mi hanno invitato al Collegio Borromeo a Pavia (per me un ritorno a casa dopo tanti anni) per provare a spiegare cosa renda la Silicon Valley unica al mondo.

Buona domanda che tanti mi fanno ma di cui è difficile dare una risposta univoca. Forse, pensandoci bene, il vero segreto di quasta striscia di terra è la mentalità. Mentalità che credo sia riassunta bene nei punti sotto, estrapolati da un recente speech:

1) Fiducia: la fiducia è  la forza che, unita alla difficoltà, ti consente di fare tutto

2) Capacità di ascolto: l’inovazione richiede la capacità di ascoltare tutti e di capitalizzare sulla diversità

3) Esempio: i veri leader trascinano e non spingono

4) Sogno: l’imprenditore è chi è capace di aggregare intorno ad un sogno persone (le quali spesso poi porteranno le soluzioni ai problemi)

Fiducia, capacità di ascoltare e di dare l’esempio, voglia di guardare avanti e coinvolgere persone su progetti credo siano le materie prime di cui è ricchissima la Silicon Valley.

Il paradosso è che le frasi sopra citate non  vengono da un guru della Silicon Valley, ma da una delle (tante) persone che in Italia fanno cose incredibili. In questo caso si tratta di Andrea Pontremoli, che, figlio di un mugnaio, è partito come tecnico di manutenzione in IBM per diventarne Presidente ed Amministratore Delegato. Salvo poi lasciare il tutto per andare a fare il CEO di Dallara, una degli orgogli tecnologici italiani (sotto il video in cui Andrea si racconta).

Storie incredibili di italiani incredibili che nessuno racconta e pochi conoscono. Perchè?

Perchè, come puntualizza Fabrizio Capobianco (un altro self made man italiano) in un post da leggere tutto in un fiato, “in Italia non si sentono mai raccontare le storie dei self-made man. Da noi sono molto piu’ interessanti i nobili e i figli dei ricchi. E invece chi parte da sotto e arriva in cima per me e’ un mito. Chi e’ imprenditore di prima generazione e ci arriva, senza il papi e le raccomandazioni, e’ un grande. E’ qualcuno che ha inseguito un sogno, che ci ha messo della passione, che l’ha trasferita agli altri. Dovremmo celebrarli. E tanto. Sono i modelli da inseguire, da replicare, da osannare. I modelli a cui i giovani dovrebbero ispirarsi, perche’ ci si possono riconoscere. Modelli da imitare. E invece non ne parliamo mai. Parliamo di quelli che nascono ricchi… E come si imita uno che e’ nato ricco se si e’ nati poveri?“.

Immagine anteprima YouTube

La Silicon Valley è anche qui, da noi. Basta volerla vedere e darle spazio.

 

 

La notizia dell’acquisizione di Glancee da parte di Facebook ha avuto grande eco.
Accanto ai complimenti, si è alzato, in puro spirito italiano, un velato coro di polemiche.

Due i magneti della discussione:
1) possiamo considerare imprenditore chi avvia una azienda per poi venderla (per fare quella che in gergo è chiamata “exit”)? o è nulla più che un finanziere (o “startupper aspirante finanziere digitale” come ha scritto ieri Daniele Buzzurro su Linkiesta)?
2) possiamo considerare un successo italiano chi si sposta in un altro paese e fa l’impresa?

Credo che il minimo comune denominatore di questi commenti siauna lontananza dalla realtà del fare startup e, più in genere, dalla realtà del fare innovazione ed impresa oggi.
Mi limito a qualche breve nota, senza pretesa di esaustività.

I cicli dell’innovazione oggi sono molto brevi. Non c’è più spazio (o meglio tempo) per percorsi imprenditoriali che creino innovazione, la facciano crescere al proprio interno attraverso l’autofinanziamento fino ad arrivare a raccogliere sui mercati i ritorni delle vendite. Così come il venture capital è lo strumento per accelerare i processi innovativi in assenza di immediati ritorni economici, l’acquisizione è la via con cui le startup portano l’innovazione al sistema delle grandi imprese La exit è quindi il meccanismo con cui l’innovazione viene messa nelle condizioni di essere applicata su larga scala. Questo è il modo con cui il sistema dell’innovazione funziona e si rigenera. Perchè, dopo la exit, l’imprenditore riparte con un progetto nuovo (viene chiamato “serial entrepreneur perchè l’avviare impresa è quanto lo distingue).
Attenzione, le eccezioni sono possibili. Ma per una Facebook, ci sono centinaia di Glancee e un numero molto più alto di aziende che non ce la fanno. Rimando ad un articolo precedente per i dati su quotazioni e operazioni di M&A.

Quindi, se il sistema dell’innovazione ruota sulle acquisizioni da parte delle grandi aziende tecnologiche (quelli che in un post precedente avevamo chiamato “new economy leviathans“), ci dobbiamo, a buona ragione, chiedere quali e quante grandi imprese capaci di fare acquisizioni di tecnologie nell’ordine delle decine/centinaia di milioni abbiamo in Italia. Visto che la risposta è ovvia (in Italia solo il 2-3% sono catalogabili come grandi aziende e sono, per lo più, operanti su settori maturi), non dobbiamo stupirci che le startup migliori cerchino la propria strada là dove le uscite sono possibili. Quindi all’estero, dove vivono i giganti della new economy che per tali aziende possono rappresentare sia un cliente importante che un potenziale acquirente. Il contrario sarebbe bello, ma è semplice utopia. Peraltro, questo vale non solo per l’Italia, ma anche per gli altri paese europei e per
molte parti degli stessi Stati Uniti (non a caso i ragazzi di Glancee
si sono dovuti spostare da Chicago in Silicon Valley).

Però, tutto ciò non toglie che le cessioni di impresa à la Glancee o à la Cacetech restino dei agrandi successi italiani anche se conseguite oltreconfine. Perchè?

Perchè contribuiscono a creare una nuova generazione di imprenditori italiani di successo che torneranno a fare impresa e ad investire in impresa. E, di certo, terranno l’Italia nel loro radar, localizzando da noi parte delle loro nuove iniziative imprenditoriali, facendo da advisor o da investitori ai giovani startupper che verranno (ci sono anche capitali e consigli italiani dietro il successo di Glancee) e, soprattutto, facendo da esempio (virtuoso) per chi oggi in Italia sta cercando di fare startup, impresa ed innovazione. E gli esempi valgono più di mille parole, anche se, come ha commentato un mio amico americano che ben ci conosce, “we’re seeing here a hint of that pervasive character that is unique to the Italian culture: gelosia“.

Per questo bisogna celebrare il successo di Glancee, sperando che la generazione degli Andrea Vaccari, degli Alberto Tretti e dei Loris Degioanni prolifichi. Il dove è poco rilevante. L’alternativa è la calma piatta, che non mi sembra nè desiderabile nè tantomeno utile.

La forte crisi finanziaria che la Grecia sta vivendo porta immediatamente a domandarsi chi sia il prossimo paese. E, non si sa come mai, l’Italia è sempre tra i primi a venire in mente quando si fanno discorsi “horror” sul tema della finanza pubblica.
La lettura del Sustenaibility Report pubblicato con cadenza triennale dalla Commissione Europea ci fornisce invece, a sorpresa, indicazioni molto diverse. Senza entrare eccessivamente nel dettaglio, queste sono le principali risultanze che emergono dalla lettura:
– il Rapporto, da un lato, avverte della gravità della situazione della finanza pubblica europea, che, senza interventi strutturali, potrebbe sfuggire dal controllo. La Commissione Europea stima che il debito europeo raggiungerà il 150% del Pil nel 2030, per superare il 200% nel 2035.
– Dall’altro, segnala come esista una marcata differenziazione tra le situazioni dei diversi paesi dell’Unione Europea (il cosidetto “country factor“). Le previsioni a livello di paese mostrano situazioni eterogenee: tra i paesi in difficoltà, in compagnia di Grecia e Irlanda, troviamo il Regno Unito, ma stranamente non l’Italia, che, invece, compare nell’elenco dei paesi che invertiranno la rotta, insieme a Svezia e Danimarca.
Su cosa si fondano queste rosee ed inaspettate previsioni? Dall’analisi dei dati degli ultimi trentanni.
Prima degli anni Novanta, il debito pubblico italiano cresceva di più della media degli altri paese europei. Dalla seconda metà degli anni Novanta, ha invertito il trend, e, complice la crisi finanziaria globale, per la prima volta dal 1986, oggi è tornato sotto al 25% del debito europeo. Il rapporto si sbilancia a prevedere una discesa  sotto al 15% nel 2030 (disallineandoci dai cosiddetti PIIGS, acronimo usato per indicate il gruppo dei paesi poco “virtuosi” in materia di debito pubblico).
PIIGS.jpgCome si spiega questa inversione di rotta?
La sterzata si è concretizzata all’indomani della grande crisi valutaria dell’inizio degli anni Novanta: le pressioni allora esercitate dei mercati finanziari e gli interventi di risanamento condotti dal governo nel periodo 1992-1997 per fare rientrare il nostro paese nei parametri di Maastricht hanno portato ad un ridimensionamento sostanziale del nostro debito pubblico, nell’ordine del 6%. Dopo l’ingresso nell’Unione Europea abbiamo un po’ mollato il freno, ma, a partire dal 2006-2007, gli interventi attuati dal governo hanno consentito un ulteriore riduzione, nell’ordine del 2%. Inoltre, va segnalato come il pacchetto anti-crisi varato dall’Italia abbia avuto una dimensione (e  quindi un’incidenza sul debito pubblico) molto più modesta rispetto a quanto avvenuto in altri paesi europei (gli interventi a sostegno del settore bancario hanno inciso da noi per lo 0,1% del Pil, contro il 10% del resto dell’area euro).
Quindi ci troviamo posizionati abbastanza bene all’inizio della seconda decade del terzo millennio. La  vera domanda è se questa ritrovata virtù sia sostenibile (qui servono riforme strutturali e non interventi on-off quali il rientro dei capitali che, per quanto abbia aiutato molto, non è una manovra replicabile) e, allo stesso tempo, non sia stata ottenuta a discapito degli investimenti (gli altri paesi hanno usato risorse pubbliche per attenuare l’impatto della crisi, ma anche per alimentarne la ripresa).
Al riguardo, staremo a vedere. Ma, per una volta, godiamoci un po’ di buone notizie.

P.S. Grazie a Marco Fontana per il suggerimento a commentare il report.

Uno studio pubblicato da NESTA (National Endowment for Science, Technology and the Arts) segnala come il 54% dei nuovi posti di lavoro sono create dal 6% delle imprese qualificate come “high tech”, quello che viene definito come il “vital 6 per cent”. Premetto che non conosco in dettaglio la base metodologica della ricerca. Tuttavia il messaggio che esce dallo studio è molto chiaro. Per un paese l’unica strada per la crescita passa attraverso la ricerca e l’innovazione. Senza di queste, si può solo cercare di mantenere le posizioni acquisite, con la consapevolezza che la curva di crescita sia inevitabilmente destinata  ad appiattirsi, se non a declinare.
Come si posiziona il nostro paese? Mi sono permesso di fare un po’ di analisi sui nostri dati di crescita del Pil dal 1996 ad oggi. La crescita media del periodo è lo 0,80%. Se ci limitiamo all’ultimo decennio, scende allo 0,4%. Se consideriamo il periodo dal 2005 ad oggi siamo in contrazione  dello -0,5% all’anno. Nella lettura dei dati va considerato l’impatto delle congiunture economiche. Tuttavia, anche depurando i dati dal rollercoasting dei cicli economici, sembra abbastanza evidente come la nostra traiettoria di sviluppo si sta appiattendo, se non addirittura declinando.
Pil Italia.JPGChe fare quindi?
Puntare con decisione sull’innovazione e sulle nuove tecnologie, sostenendo la nascita di start-up e spin-off e aiutandole a crescere. Un percorso complesso (rimando ad alcuni precedenti post) ma obbligato. Il nostro futuro è nelle loro mani.
Ciò potrebbe indurre al pessimismo visto il ritardo che l’Italia ha accumulato. Ma in un mondo che cambia rapidamente le posizioni  si modificano con grande rapidità offrendo delle opportunità anche a nuovi entranti. “The overall pace of change is such that is aligning itself much more with the start-up sector”, segnala Julie Meyer, fondatrice di una serie di iniziative (quali First Tuesday ed Entrepreneur Country) volte a connettere gli imprenditori europei. Quindi una luce di speranza per chi saprà cogliere la sfida.

Il cinquantesimo anniversario della scomparsa del mitico Coppi mi suggerisce il titolo; lo spunto mi viene dato invece dai commenti che erano stati fatti ad un mio precedente post in cui descrivevo alcune situazioni tipiche che connotano la nostra cultura imprenditoriale. In quella occasione mi ero riproposto di ritornare sull’argomento ed un commento in particolare meritava un supplemento di riflessione. Il commentatore (imprenditore nel campo dell’informatica) segnalava un problema abbastanza diffuso nel nostro tessuto imprenditoriale: in Italia ci sono molte microaziende che fanno le stesse cose, sul medesimo territorio, proponendo prodotti/servizi simili. Tali imprese hanno dimensioni “troppo grandi per essere redditizie e troppo piccole per avere credibilità e per gestire efficacemente le richieste di mercato e bilanciare i costi fissi”.
La risposta al problema descritto sembrerebbe, a livello teorico, abbastanza banale: si chiama “aggregazione”. Eppure, nonostante la soluzione sia sotto gli occhi di tutti, la sua applicazione pratica avviene di rado. Il commentatore dice di aver valutato collaborazioni o integrazioni con 5-6 aziende concorrenti, con lo scopo di ottimizzare costi e risorse. “Discussioni: infinite. Risultato: nessuno. Ognuno preferisce essere padrone di una piccola azienda, piuttosto che socio in una azienda molto più grande. Noi abbiamo dovuto assumere tre persone da settembre, e altre tre dovremo assumerle nei prossimi mesi, pur sapendo che in altre aziende come la nostra, qui a due passi, ci sono risorse già formate e competenti, che non hanno lavoro. Domani però la situazione potrebbe ribaltarsi ed essere in difficoltà sia noi, perché abbiamo troppo personale, sia gli altri perché non riescono a far fronte al carico di lavoro. Così facendo, resteremo ognuno al timone della propria barchetta, a costo di accompagnarla in fondo al mare”, conclude amaramente il commentatore.
Che fare, quindi?
E’ evidente come la frammentazione sia una soluzione difficilmente vincente. Non solo nei settori ove ci sono alti costi fissi di produzione, la dimensione e le connesse economie di scala sono fondamentali per competere. Quasi ovunque alla dimensione aziendale è associata anche quella “credibilità” che è requisito necessario per potere penetrare clienti importanti e fare quindi un salto di qualità a livello aziendale (ciò è segnalato dallo stesso commentatore che lamenta come “alcune aziende, potenziali nostre clienti, tra le più grandi della zona, abbiano fatto importanti investimenti, affidandosi a fornitori più visibili e credibili, proprio in virtù delle proprie dimensioni, pur proponendo prodotti, servizi e tecnologie almeno comparabili con i nostri”). Inoltre la stessa innovazione richiede investimenti che solo in presenza di una massa critica aziendale possono essere possibili.
Ma se i limiti di un modello di tante piccole imprese sono evidenti e noti, perché sono così rare esperienze di aggregazione? Qual è l’ostacolo?
Non credo sia un problema di natura finanziaria. Non mi convince la spiegazione che non si fanno acquisizioni perché mancano le risorse. Le risorse volendo ci sono (lo testimoniano i dati sugli investimenti immobiliari), mancano piuttosto la convinzione e la capacità di fare progetti imprenditoriali ambiziosi (spesso ci si nasconde dietro alla piccola dimensione perché non si crede a sufficienza nella bontà del proprio progetto o per limitare le complessità dello stesso). Inoltre, se fosse un problema di risorse, sarebbero diffusissime forme di aggregazione di tipo non gerarchico (come accordi, consorzi, …) che invece faticano a decollare.
Credo che il problema resti principalmente di natura culturale. Nel nostro paese resta forte il mito del mettersi in proprio (che è una buona cosa, in quanto rappresenta il motore dell’attività), ma al contempo del non dover rispondere a nessuno. Ciò si traduce nella scarsa disponibilità a condividere decisioni e a realmente delegare responsabilità. E, in assenza di questa attitudine mentale, si fatica a crescere e ad avere successo.
Questo modo di fare è diffuso  sia dentro le aziende, ove si fatica a contornarsi di persone in grado di far fare il salto di qualità all’impresa (rimando sul punto al post di Vittorio Viarengo) e non si delegano responsabilità e compiti, così come tra le aziende (, ove ciascuna tende a replicare quanto che già fanno altri e raramente condividere progetti e iniziative. Lo stesso atteggiamento permea anche la pubblica amministrazione: ospedali ed università sono buoni esempi al riguardo.
Tutto ciò porta ad avere tanti “padroni”, tanti “condottieri”, tanti “presidenti” di iniziative spesso impalpabili o che, una volta avviate, faticano ad assumere un ruolo di primo piano o di passare al livello successivo. Perché per fare il salto di qualità è richiesta l’aggregazione e il coinvolgimento di terzi. E quando ci si mette insieme ad altri, qualcuno, anzi tutti, devono fare un passo indietro. E qui spesso il meccanismo si inceppa.
Come avevo già segnalato in altri post, le cose stanno cambiando, ci sono molti esempi virtuosi, da cui si deve partire. Ma la base  culturale è questa. E i cambiamenti culturali si muovono su assi temporali lunghi.

Leggendo l’ultimo post di Marco Marinucci, mi sono ritornate in mente le parole di Bill Young, CEO di Monogram Bio, azienda di South San Francisco (la “culla del biotech” come ricordano i cartelli stradali) specializzata nel valutare l’efficacia dei trattamenti farmaceutici per pazienti affetti da HIV.
Ci siamo rivisti un paio di settimana fa, un venerdì mattina a colazione (alle 6.30 della mattina al Marriott di San Mateo, le giornate nella valle iniziano piuttosto presto). Mi capita di incontrarmi con lui con una certa regolarità  in quanto Monogram Bio è uno dei casi che analizzerò nel mio libro sui business model delle aziende life sciences che dovrebbe uscire in America nella prossima primavera (dico dovrebbe, perchè sono un pò in ritardo). Bill mi stava raccontando del fatto che erano stati appena acquisiti da LabCorp. Ne parlava con grande orgoglio e con una assoluta naturalezza, nonostante tecnicamente quella successiva fosse la sua ultima settimana di lavoro e si apprestasse a rimanere “unemployed” e ad abbandonare la valle (nessuno può permettersi di vivere a lungo nella Bay area senza lavorare).
Nella mentalità  della Silicon Valley l’acquisizione rappresenta la meta per una azienda e per tutte le persone che vi lavorano, dal CEO all’ultimo dei dipendenti. Resta un obiettivo nonostante a questa faccia di solito seguito una ampia ristrutturazione aziendale, che porterà  all’uscita di gran parte del management e di molti dei dipendenti. “Folle”, diremmo noi. “So what?”, dicono loro. Rappresenta la conclusione di un percorso professionale ma anche l’opportunità  per avviarne uno nuovo, magari in una startup.In questa prospettiva l’acquisizione rimette in circolo innovazione e crescita economica su basi rinnovate. Ovviamente, le opportunità  non sono necessariamente per tutti non si manifestano esattamente il giorno dopo: ci saranno persone che rimarranno a piedi per un certo tempo. Tuttavia il gioco è più spesso a somma positiva che negativa.
Preparati ad una nuova ondata di startup nel campo biotech” mi dice Bill tra un sorso di caffè e l’altro (sì, perchè il caffe americano è molto, troppo lungo, nulla da cui noi italiani dobbiamo prendere esempio in questo  caso). Roche ha difatti comprato lo scorso marzo Genentech, la più grande azienda biotech al mondo, guarda caso con base a South San Francisco (nel caso vi foste in precedenza chiesti perchè South San Francisco dichiari di essere la culla del biotech). Grande acquisizione (quasi 50 miliardi di dollari, la più grande mai avvenuta nel mondo delle biotecnologie), imponente ristrutturazione. Molta gente in uscita, una fiumana di nuove startup in entrata. Questo è forse il vero segreto della Bay Area e della sua capacità  di avviare sempre nuovi cicli di innovazione.

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