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Qualche settimana fa Startup Europe Partnership (SEP) ha pubblicato il primo quadro di comparazione dell’ecosistema europeo delle startup visto da una prospettiva un po’ diversa dal solito. Non quella delle partenze (numero di startup, incubatori, acceleratori, …) ma quella degli arrivi (le cosidette “exit”) e di chi sta effettivamente viaggiando e facendosi strada (le “scaleup” e gli “scalers”, ossia le startup che crescono dimensionalmente).
Analisi – va detto – ancora parziale (difficile avere dati esaustivi su un universo in così forte evoluzione) e limitata sia geograficamente (solo cinque paesi per ora mappati, Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Spagna) che settorialmente (si concentra per ora sull’ICT, ossia le nuove tecnologie della informazione e comunicazione.

Cosa emerge dai dati? Come di consueto mi limito ad alcuni rapidi commenti, rimandando al report – SEP Monitor è scaricabile qui – per un’analisi più completa.

Il Regno Unito fa gara a parte. Delle 990 scaleups mappate nei cinque paesi 399 vengono da lì. Il doppio di Germania (208) e Francia (205), oltre quattro volte Spagna (106) e Italia (72).

Al di là del numero delle scaleups, il Regno Unito è soprattutto avanti per la quantità di capitali che è riuscita a mettere a loro disposizione. Oltre 11 miliardi di dollari ($11.1B), quasi due volte quanto investito in Germania ($6.6B), quattro volte la Francia ($3.1B), sei volte la Spagna ($1.8B) e quasi trenta volte l’Italia ($0.4B).

È in particolare sull’accesso delle startup al mercato di borsa che il Regno Unito stacca tutti. 12 startup quotate e soprattutto quattro miliardi raccolti attraverso il canale borsistico, il doppio di quanto tutti gli altri paesi hanno fatto messi insieme.

Dati simili, con differenze ancora più marcate, se restringiamo la analisi agli scalers, ossia le startup che hanno raccolto oltre 100 milioni di dollari. Dei 38 mappati, la metà (19) vengono dal Regno Unito, la Germania si ferma a 9, la Francia a 6, la Spagna a 3, l’Italia non è pervenuta.

Come leggere questi dati? Sembrerebbe che Italia ne esca con le ossa rotte. Quinta su cinque paesi. E temo che nel prossimo report, quando mapperemo anche i paesi nordici, scalerà di altre posizioni.

Rendiamocene conto: l’Italia non è più (da tempo) una delle locomotive dell’innovazione europea. I treni sono partiti tempo fa e noi eravamo in altre vicende affaccendati. Eravamo impegnati a discutere su come cambiare tutto senza però cambiare nulla. Discussioni che ahimè non mi sembrano ancora concluse.

Però vedo una luce in fondo al tunnel. Mentre, a livello di sistema paese, eravamo presi in interminabili discussioni, dal basso c’è chi ha iniziato a fare.E ha prodotto risultati significativi. È il popolo delle startup, degli innovatori, degli investitori. È il popolo di chi fa e non passa le giornate a dibattere su cosa gli altri dovrebbero fare. È un popolo silenzioso e operoso che collabora e crede in chi prova a fare. È un popolo che sta in silenzio raccogliendo sempre più adepti. È il popolo che cambierà l’Italia e ci riporterà lentamente in alto nelle classifiche che oggi ci vedono impietosamente nella parte destra del tabellone.

Quindi come leggere i dati?

Siamo indietro perché siamo partiti in ritardo rispetto agli altri paesi e senza supporto istituzionale. Mi sarei stupito del contrario.

Nonostante tutto stiamo giocando la partita. Con il tempo e, magari, con un po’ più di supporto istituzionale – il lavoro che stanno facendo i vari Luna, Firpo, Corbetta, Fusacchia è encomiabile – recuperemo le posizioni perdute. Il lavoro è l’unica strada percorribile.

C’è una luce in fondo al tunnel. E non è un treno che ci sta venendo incontro.

 

Tra i dati presentati questa settimana da Unioncamere, che hanno dato la fotografia dell’imprenditoria italiana nei primi nove mesi del 2013, uno in particolare è stato salutato con entusiasmo.  Delle quasi 300mila imprese nate fino al 30 settembre, il 34% hanno alla guida uno o più giovani under 35. Il dato è interessante anche se il commento del Presidente Ferruccio Dardanello “c’è una generazione di giovani che non si arrende al vento della protesta e non si rassegna a lasciare l’Italia per costruirsi un futuro, ma si rimbocca le maniche e guarda con coraggio al domani” sembra forse eccessivamente improntato all’ottimismo (in contrasto peraltro con la lucida analisi di Beppe Severgnini sul The New York Times in cui descrive “a nation on the run“). Mi ricorda l’ottimismo che trapela quando si commentano i dati sulle startup.

Il fatto che nel  77% si tratti di imprese individuali (insieme al dato sul boom delle partite IVA) fa pensare che queste nuove imprese siano più forme di parcheggio di persone che faticano a trovare assunzione piuttosto che solidi progetti imprenditoriali in fase di avvio. Inoltre il saldo tra aperture e chiusure di imprese (+13 mila unità) è il più basso della serie degli ultimi dieci anni. Quindi la realtà è che in Italia stentiamo a sostituire le realtà produttive esistenti che chiudono e lo facciamo con forme di impresa fragili (micro-imprese individuali, ossia proto-imprese).

Tuttavia, lanciato l’allarme, vediamo il positivo: c’è una nuova generazione di Italiani che si sta cimentando con il fare impresa. Una generazione distribuita (forse per la prima volta nella nostra storia) in modo uniforme su tutto il paese (il 39% delle nuove imprese giovanili sono nate nel Sud). La nuova Italia sta nascendo, tra mille difficoltà. Non sarà una passeggiata nel parco, ma da qualche parte bisogna pure iniziare.