Categoria "Opportunità"

Io vivo a Pavia (quando non sono in transito). Ricordo che una mattina di qualche anno fa, finita la mia partita di tennis delle 7.30, mi ero fermato a fare colazione in un locale appena aperto, “Miccone”, in Borgo Ticino. “Ma lei è Alberto Onetti di Mind the Bridge?”. Questa è la domanda che mi ha fatto la persona dietro al banco mentre stavo ordinando un cappuccino. Disclaimer: non mi capita spesso e difatti mi ricordo l’episodio.

La persona dall’altra parte del banco era Giuseppe Dabbene, un ragazzo allora venticinquenne, che nel tempo ho seguito nelle sue vicende imprenditoriali che lo hanno portato dalla nebbiosa Pavia alla parimenti nebbiosa Londra dove si trova  tuttora.

Credo che sia interessante raccontare la storia di Giuseppe perché riassume bene lo spirito di chi è imprenditore, ossia di chi vive in una tensione continua tra il pensare in grande e la complessità della realizzazione dei propri progetti.

Giuseppe, cosa è il Miccone e come è nata questa avventura imprenditoriale?
Tutto è nato nel novembre 2013 quando io e la mia famiglia avevamo capito che il mondo del food in Italia stava cambiando e si stava sempre più ammodernando e specializzando.  La mia famiglia proveniva dal mondo del commercio italiano dal 1977, quel commercio fatto di gestione familiare che non rispecchiava le logiche aziendali moderne. Da quando ho iniziato questo cambiamento ho capito che bisognava circondarsi di esperti del settore food e costruire un team che creasse non un semplice locale, ma un vero e proprio brand.
Abbiamo quindi studiato la tradizione enogastronomica pavese e abbiamo capito che il Miccone rappresentava un simbolo per questo territorio. Il Miccone è infatti il pane della tradizione della provincia di Pavia. Abbiamo fatto sì che il Miccone fosse il core-business del progetto, attorno ad esso infatti abbiamo strutturato tutto il menù e l’offerta che proponiamo durante tutto l’arco della giornata.
Il Miccone viene tagliato in fette e da queste fette nascono i nostri “Micconi”, panini creati utilizzando per il 90% ingredienti del territorio come ad esempio salumi, formaggi e confetture tipiche, ma anche ingredienti che rispecchiano i trend del momento come ad esempio l’avocado, sempre abbinato a prodotti locali. Oltre che per gli ingredienti utilizzati, i “Micconi” sono particolari perché la fetta di pane Miccone viene piegata e da questa piega nasce il nostro logo ed il nostro motto “La piega di pane pavese”. I nostri Micconi vengono serviti con vino e birra artigianale dell’Oltrepò pavese.
All’interno del format Miccone troviamo anche la caffetteria che rispecchia la metodologia e le tecniche SCAA di specialty coffee. Tostiamo direttamente il caffè all’interno del negozio. Creiamo espressi e cappuccini che abbiniamo con la torta di pane fatta con il Miccone oppure utilizzando fette di Miccone insieme alle marmellate locali.
Tutto il format è stato creato per essere replicabile e scalabile, infatti tutto il menù è ingegnerizzato e rispecchia le logiche del food cost. Il controllo di gestione è inoltre affidato a un sistema di cassa dove 24h su 24h possiamo monitorare le performance del locale.

Miccone London

Come sono andati questi 3 anni a Pavia?
Fin dal primo giorno di apertura, il 5 Settembre 2014, l’attività è andata molto bene. In 3 anni abbiamo fatturato  oltre €650.000 e nell’ultimo anno abbiamo fatturato €50.000 in più rispetto al 2016. Considerando il mercato pavese di 70.000 abitanti, il cui 50% circa è sopra i 60 anni di età, penso che sia un ottimo risultato.
La vera difficoltà è quella di operare in una micro economia, in un periodo di crisi, dove la burocrazia ed il sistema molto spesso non sono dalla parte dell’imprenditore. Ne ho toccato con mano alla fine del 2016 dove alcuni membri del vecchio team non remavano più dalla parte dell’azienda a abbiamo rischiato di chiudere. Nessuno mi ha dato una mano e mi sono dovuto rialzare da solo, prendendo delle decisioni molto importanti.
Ogni piccolo errore è fatale per la sopravvivenza dell’azienda.
Applicare tale modello di successo in una realtà come Londra dove ci sono 10milioni di persone con molti fattori a vantaggio per l’imprenditore è molto stimolante e positivo per il progetto Miccone.

Perché Londra?
Londra è sempre stata una città che amavo fin da quando avevo 14 anni, nel 2015 ci sono ritornato e mi sono subito accorto che alcune tecniche utilizzate in molti locali, come ad esempio tostare il caffè all’interno del locale, noi a Pavia la facevamo da più di un anno. Dopo quel primo viaggio sono ritornato nel Novembre 2015 e sono rimasto per un mese per essere sicuro che ci sarebbe stato mercato anche per noi, ho analizzato molto le zone, altri format di food e da questa esperienza ho avuto un’ulteriore prova che anche per noi c’era la possibilità di avere mercato.
Oltre che da questi fattori mi sono reso subito conto che la burocrazia, la facilità di apertura della società, la pressione fiscale ridotta avrebbero senza dubbio agevolato l’apertura del format.
Nel febbraio del 2016 ho deciso quindi di trasferirmi definitivamente a Londra e cambiare per sempre la mia vita, quella della mia famiglia e anche quella del mio progetto.
Pur avendo poche conoscenze, nella prima settimana in cui mi sono trasferito ho trovato lavoro presso un Independent Coffee Shop. In quei mesi mi sono aperto a tutte le possibilità che Londra mi presentava e nell’aprile ho aperto il primo pop-up vicino Tower of London solo la sera per testare se il Miccone insieme a vini e birra artigianale avrebbero funzionato a Londra
Da questa esperienza che è durata un paio di mesi, ho capito che il Miccone sarebbe potuto piacere piacere non solo agli italiani presenti su Londra (500.000), ma soprattutto agli inglesi.
Ad agosto ho deciso di trasferire la nostra Ape Truck da Pavia a Londra all’interno del Mercato Metropolitano per continuare questa avventura. Il tutto ha avuto un riscontro positivo che ci ha portati poi a decidere di vendere l’ape e di concentrarci sull’apertura di punti vendita su Londra.

Langhi Miccone 2 Langhi Miccone

Perché l’Ape Truck non ha funzionato? Me la ricordo davanti all’ufficio ed era iconica…
Il problema principale dell’Ape Truck era l’assenza di spazio. Siamo tuttavia rimasti molto contenti perché grazie a questa esperienza abbiamo saputo ottimizzare le procedure di preparazione dei “Micconi” e dei taglieri. Tutto questo know-how è stato poi portato nel locale di Pavia con una riduzione delle tempistiche di attesa sul servizio e una maggiore armonia nella preparazione.
I problemi che abbiamo riscontrato in Italia sono stati sia di carattere burocratico (alcuni enti non sapevano nemmeno cosa fosse un Ape Truck) sia nella gestione degli eventi, il cui costo la maggior parte risultava essere molto costoso, senza nessuna garanzia di ritorno dell’investimento iniziale.
A Londra, invece, abbiamo capito che per il nostro format – che si basa soprattutto sull’alta qualità di tutti i nostri prodotti – lo street food non riusciva a trasmettere a 360° l’esperienza che si prova mangiando dentro un locale Miccone.
Dall’esperienza però sono nate nuove ricette di “Micconi” e abbiamo avuto un elevato numero di feedback positivi dai clienti inglesi in merito a tutti i prodotti che servivamo, dai “Micconi” al vino e birra dell’Oltrepò Pavese. Tutto questo ci ha dato la consapevolezza che il futuro del Miccone ha una sola strada: diventare grande.

Cosa altro hai imparato da questi anni a Londra che potrebbe essere utile per chi come te volesse avviare una attività lì?
In questi anni ho imparato che Londra è una città che offre tante possibilità di fare business e di conoscere nuove persone. Ti può portare in alto ma bisogna essere preparati. A chi pensa di venire qui in cerca di fortuna, sbaglia in partenza.
Se un imprenditore ha già un progetto minimamente collaudato in Italia, allora le strade per diventare grandi ci sono. Naturalmente bisogna allenarsi tutti i giorni e cogliere tutte le occasioni che si presentano.
La velocità con cui cambiano le cose qui è 10 volte superiore rispetto all’Italia. Avere un’azienda snella e facilmente modificabile per adattarsi al mercato e alle esigenze è la cosa migliore. Bisogna quindi pensare a mettersi continuamente in gioco e reinventarsi sempre.
La burocrazia è pari a 0: per una licenza di food ho aspettato 3 giorni e per aprire la società ho impiegato  1 giorno con una sterlina, il tutto on-line.

Raccontaci l’esperienza del crowdfunding.
Nell’agosto 2017 abbiamo deciso di intraprendere l’esperienza del crowdfunding: abbiamo quindi creato tutto il materiale necessario per presentarci online (video, foto etc.) e ci siamo divertiti molto nel farlo.
Abbiamo lanciato la campagna l’8 Dicembre 2017 raccogliendo in 30 giorni 86.000€, purtroppo non sufficienti a raggiungere il risultato che ci eravamo prefissati. Tutta questa esperienza ci ha portato però molta pubblicità e ha fatto conoscere al grande pubblico il nostro progetto oltre che la possibilità di interloquire con possibili investitori.

Miccone servito

Quali sono ora i progetti per il futuro?
Dopo l’avventura del crowdfunding ora siamo alla ricerca di partner finanziari che ci portino oltre che a capitali anche competenze per aprire il primo punto vendita a Londra e da lì scalare il progetto.
Il nostro sogno è diventare grandi all’estero con molte aperture sia a Londra, ma anche in altre capitali europee. Aprire il mercato online, con l’e-commerce. Poi tornare a investire in Italia, aprendo altri punti vendita, comprare alcuni produttori e far diventare lo store di Pavia il vero headquarter con uffici che si occupino di marketing ecc.
Negli Stati Uniti il fallimento è apprezzato, chi non ha mai toccato con mano il fondo e si è rialzato fatica a ricevere investimenti. Da noi è il contrario.
Io in qualche misura ho fallito, o meglio, alla fine del 2016 ci sono andato molto vicino. L’idea dell’Ape Truck non ha funzionato e il progetto di crowdfunding alla fine non ci ha portato le risorse necessarie.
Ma ho imparato e mi sono sempre rialzato e tutt’oggi continuo questo progetto. Voglio che questo progetto diventi grande e restituisca vantaggi all’Italia e alla mia Pavia, visto che la maggior parte dei fornitori ha base qui. Vorrei che fosse un esempio positivo di rivincita di un territorio che per molti decenni si è dimenticato del suo splendore e delle potenzialità che ha.

Ieri a Roma in occasione dello Startup Day organizzato dall’AGI abbiamo presentato i dati sull’Italia delle scaleup, ossia sui risultati visibili (leggasi imprese) che ad oggi l’ecosistema delle startup è stato in grado di produrre.

I dati prodotti nell’ambito di Startup Europe Partnership restituiscono una immagine impietosa del Bel Paese, che mostra un ritardo temo incolmabile nei confronti dei principali paesi europei e che è a rischio di sorpasso anche da parte di paesi più piccoli e con minore tradizione industriale del nostro. Corriamo un chiaro rischio di fuga degli imprenditori e delle startup, dopo aver subito per anni quella dei cervelli.

Vi lascio l’approfondimento dei dati e mi concentro su quanto emerso dal dibattito, moderato da Riccardo Luna, che ha seguito la presentazione del rapporto.

Al Tempio Adriano a Roma c’erano difatti tanti protagonisti di questo sistema startup, tanti amici e compagni di tante battaglie nel nome delle startup.

Tutti, come il sottoscritto, in qualche misura tanto frustrati quanto corresponsabili di questo fallimento.

Sì, come ha ben detto Massimiliano Magrini, non è stata una riunione sindacale del movimento startup perché non avrebbe avuto senso.

È stata una analisi collettiva di quanto di giusto non è stato fatto e di quanto si potrebbe ancora fare per far decollare un aereo affossato sulla pista.

È stato il riconoscimento del fallimento di anni di duro lavoro.

Fallimento nel non essere riusciti a spiegare, come ha ammesso Marco Bicocchi Pichi, che le startup non sono importanti per se stesse, ma per il paese.

E la prova di ciò è stata che il mondo della politica, invitato a questo incontro, era largamente assente.

Sorge il dubbio che tale assenza certifichi, come ha sottolineato Fausto Boni, l’evidente disinteresse del mondo della politica nei confronti di startup e innovazione. Probabile.

La realtà, meno digeribile da un mondo che ha costruito il proprio manifesto nella capacità di “pitchare” in modo chiaro cosa si vuole fare, è  la nostra incapacità di comunicare alla gente perché le startup sono importanti e a cosa servano. “Se manca una domanda dal paese per le startup, manca la sanzione politica per chi non se ne occupa”, ha detto, senza diplomazia, Antonio Palmieri – “E perché quindi sorprendersi se il mondo della politica non se ne occupa? Fate sentire la vostra voce in modo chiaro, se volete avere una opportunità che qualcuno vi ascolti”. Touché.

Che serve allora?

Una cosa: capitali dal pubblico. Qualche miliardo, come ha proposto Salvo Mizzi, non spiccioli. In questi anni abbiamo migliorato la cornice regolamentare ma manca il quadro. Non si può pensare di giocare con i bastoncini dello Shangai quando gli altri muovono una clave. E non c’è da vergognarsi nel chiederli, ha detto Mauro Del Rio.  Soldi sì, “ma non investiti a pioggia in una logica simil-democristiana, soldi puntati su pochi cavalli vincenti”, ha chiesto Davide Dattoli. Soldi da cui tutti quelli intorno al tavolo non devono trarre benefici. Chiedere investimenti pubblici e farsi pagare management fee per investirli o caricare fee per servizi è semplicemente non corretto e distrugge la fiducia, che è l’altro pezzo che è probabilmente venuto a mancare nel nostro ecosistema, come ha ricordato Gianluca Dettori. E la cosa suona strana visto che il mercato delle startup è costruito sulla fiducia.

Quindi ora o mai più. Perché il tempo, più che i capitali, è la vera risorsa scarsa. Solo così startup e innovazione da emergenza nazionale possono diventare una opportunità nazionale, come ha ricordato Marco Gay.

Altrimenti resteranno solo le buone intenzioni in un paese avviato sulla strada del declino.

Cristina Pozzi ci racconta la sua nuova start-up, nata per cambiare il futuro.

Imprenditrice seriale, angel investor, speaker, consulente, advisor, scrittrice. Quando Cristina Pozzi ti racconta la sua storia, è difficile restare indifferenti. Sarà la giovane età, sarà l’entusiasmo che trasmette quando parla dei nuovi progetti o il fatto, non indifferente, che tutti i suoi successi siano stati realizzati in Italia ma, mentre parla, questa ragazza riesce davvero a sorprendere gli ascoltatori.

La ho invitata a Varese a parlare ai miei studenti di Entrepreneurship  del corso di laurea GEEM dell’Università dell’Insubria organizzato per presentare Impactscool, il suo ultimo progetto finalizzato alla diffusione dei problemi e delle opportunità associati alle tecnologie esponenziali e all’intelligenza artificiale.

Ho colto l’occasione per scoprire in cosa consiste l’iniziativa e ripercorrere, assieme alla diretta interessata, le tappe fondamentali del suo percorso.

Cristina, torniamo un po’ indietro a quando tutto è iniziato.

“Ho iniziato a lavorare come consulente a Milano, subito dopo la laurea in Economia, ma ho sempre avuto il pallino per la scienza e la tecnologia. Da piccola ero un po’ nerd, lo ammetto, e passavo ore nello studio di mio nonno Lucio, ingegnere, a osservare i suoi strumenti; erano misteriosi, affascinanti, mi sembravano magici. Durante i due anni trascorsi in consulenza, ho conosciuto Andrea Dusi, mio futuro socio in molti investimenti; assieme, nel 2006, abbiamo lasciato il posto fisso per creare la nostra prima società: Wish Days. Partendo da zero, ci siamo scoperti imprenditori, riuscendo in dieci anni a raggiungere un giro d’affari di 40 milioni di euro, finché, nel 2016 abbiamo venduto l’azienda a Smartbox.“

Un’exit quasi storica per il mercato italiano quella di Wish Days. Ma non ha placato la tua sete di fare…

“Già durante gli ultimi anni di Wish Days avevo cominciato a riavvicinarmi alle mie vecchie passioni, studiando e approfondendo il mondo delle tecnologie e del futuro, con particolare attenzione ai suoi possibili impatti sociali ed etici. Mentre raccontavo a colleghi e amici le cose che studiavo o vedevo all’estero, però, mi rendevo conto di quanto, soprattutto in Italia, mancasse la consapevolezza reale degli avanzamenti tecnologici e scientifici. Mi sono così iscritta a Filosofia e, iniziando a confrontarmi con persone diverse, leggendo, facendomi domande, ho capito che la maggior parte di noi si può dividere in due categorie: da una parte i pessimisti cronici, quelli che immaginano un futuro catastrofico, alla Terminator, un domani in cui l’essere umano è condannato a essere sopraffatto dalle macchine; dall’altra, invece, gli inguaribili ottimisti, quelli che ritengono che l’apporto delle tecnologie sarà sempre positivo, permettendoci di vivere in un paradiso utopico, senza affanni né problemi”.

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Qual è la vision dietro a Impactscool?

“La tecnologia è neutra ed è una naturale estensione dell’essere umano, di per sé non è né buona, né cattiva. È l’utilizzo che ne facciamo che determina come influirà sulle nostre vite e sul mondo che ci circonda, amplificando gli effetti delle nostre azioni. Da questa consapevolezza nasce Impactscool, e dalla voglia di stimolare ed educare le persone a riflettere in modo critico e consapevole sui possibili impatti che avranno le tecnologie sul nostro futuro. L’obiettivo è quello di formare cittadini consapevoli e di rendere accessibili a tutti gli strumenti per gestire il proprio futuro e indirizzarlo nella miglior direzione possibile. Conoscere le potenzialità delle tecnologie esponenziali e imparare a utilizzarle può essere, infatti, una risorsa straordinaria per guidare il cambiamento, anziché subirlo o provare a resistere.

Di concreto cosa fate con Impactscool?

“Con Impactscool organizziamo nelle scuole e nelle università workshop, eventi e dibattiti gratuiti. In pochi mesi abbiamo organizzato oltre 40 workshop coinvolgendo 1800 studenti in tutta Italia. Vogliamo rendere il futuro alla portata tutti, per questo parliamo di temi come l’intelligenza artificiale, la genetica, la robotica, la realtà virtuale e la stampa 3D, e degli impatti che hanno e avranno sulle nostre vite.

Inoltre sul nostro nuovo sito www.impactscool.com analizziamo le notizie più importanti e ospitiamo tutta una serie di interviste e approfondimenti sulle nuove tecnologie. Inoltre stiamo per stampare la nostra prima pubblicazione ufficiale: “2050”, un’autentica guida futuristica, che proietta i lettori nel futuro.

Ci sono molti modi per cambiare il mondo” conclude prima di salutarci, “noi abbiamo scelto la via dell’educazione sull’innovazione. Perché solo con la condivisione della conoscenza il miglior futuro possibile può essere il futuro di tutti”.

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Sia che tu sia alla ricerca di lavoro così come sia interessato a trovare partner o collaboratori, o a essere avvicinato da potenziali clienti, avere un profilo LinkedIn professionale e accattivante è molto utile.

Per chi non lo sapesse, LinkedIn è il social network che permette di trovare e collegare il mondo dei professionisti. Sì, si parla di lavoro e professionisti in quanto questa è stata per LinkedIn la mission indiscussa fin dagli inizi: “connettere il mondo dei professionisti per renderli più produttivi e di successo”. La crescita di LinkedIn è stata incredibile. Dal 2010 è passato ad avere da 50 milioni di utenti a oltre 450 milioni nel 2016.

A San Francisco, durante la sera di Halloween, ho fatto quattro chiacchiere con Federico Gobbi, Digital Marketing Specialist & Program Coordinator di Mind the Bridge. Per i non esperti, credo che sia utile condividere alcune considerazioni e consigli di Federico dedicati ai lettori del nostro blog. Semplici e pratici, secondo lo stile della casa Mind the Bridge.

Perché non si può ignorare oggi LinkedIn
Il dato sulla crescita dei membri, ovvero coloro che hanno deciso di iniziare a creare il proprio profilo sulla piattaforma, suggerisce l’importanza oggi di essere presenti.

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Ma non basta essere solo presenti
Infatti oggi è sempre più importante essere parte attiva del sistema. Creare contenuti, condividere quelli di altri, creare fiducia nelle persone che ti seguono.

Bisogna essere riconoscibili
Per costruire, quindi, una presenza che sia anche professionale, dovrai essere riconoscibile. Ciò significa avere una foto profilo ottimizzata (400×400 pixel, con gli occhi che guardano l’obiettivo e sfondo neutrale), ma anche relazionarsi in modo appropriato con le altre persone sulla piattaforma (cosa scrivi e quanto spesso comunichi con la tua rete).

Non solo quando si cerca qualcosa
Più importante, non è solo necessario che tu lavori sulla tua presenza solo quando stai cercando una posizione lavorativa o per reclutare qualcuno. Avere una presenza su LinkedIn è un lavoro che si sviluppa giorno dopo giorno, nello stesso modo in cui si mantengono vive le relazioni offline (della vita non digitale).

I dieci “comandamenti” per essere efficaci su LinkedIn
Diamo, quindi, uno sguardo a quali sono le 10 azioni che devi mettere in atto per costruire la tua presenza su LinkedIn da adesso e soprattutto per catturare l’attenzione di coloro che stai cercando.

  • Apri il tuo profilo tutti i giorni. La maggior parte delle volte in cui ho sentito parlare di persone che non hanno successo sui Social Media, o più nella fattispecie su LinkedIn, la ragione era sempre la stessa. Queste persone non aprivano il loro profilo tutti i giorni, in molti casi nemmeno per settimane. Far crescere il profilo LinkedIn con approfondimenti, commenti o aggiornamenti sul tuo lavoro, non richiede di essere un Social Media Manager. Bisogna solo farlo: just do it. Quindi, apri il tuo profilo e naviga nella piattaforma, scopri strumenti o news pubblicate da altri e “likali” (metti “mi piace”).
  • Metti mi piace agli aggiornamenti della tua rete. La prima cosa che dovresti fare tutte le volte che apri il profilo LinkedIn è likare quanto possibile gli aggiornamenti della tua rete professionale. I tuoi amici cambiano lavoro, iniziano programmi di formazione in università o scuole specializzate o semplicemente aggiungono aggiornamenti al loro profilo. Vuoi catturare la loro attenzione? Inizia a fare qualcosa per loro e lika i loro aggiornamenti. ANCHE LINKEDIN STESSO TI DICE DI FARLO – “1ST WAY TO KEEP IN TOUCH” (prima modalità per rimanere in contatto).
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  • Controlla gli inviti che ricevi e accetta quelli corretti. Ricorda, le persone che vogliono fare business con te, potrebbero trovare qualcun altro se non rispondi. Devi essere il primo a dimostrare loro di avere ciò di cui hanno bisogno, evitando quindi di perdere il treno. Controlla più volte gli inviti che ricevi e accetta quelli che arrivano da persone che conosci o, almeno, analizza se il loro profilo è interessante. Se vedi qualcuno che è nel tuo settore, è molto probabile che questa persona voglia parlare con te per un accordo tra la tua società e la sua o essere uno dei tuoi clienti: è molto utile accettarlo. Dall’altra parte, se si tratta di qualcuno che non lavora nello stesso campo, è meglio controllare bene il profilo e farne un valutazione.
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  • Controlla chi ha guardato il tuo profilo nelle ultime ore. Questo è lo step più importante. Specialmente se non si possiede un account premium (a pagamento). Dovresti controllare chi ha guardato il tuo profilo nelle ultime ore. Molte persone attraversano il tuo profilo e, quando questo accade, significa che stanno cercando qualcosa. I recruiter cercano nuove persone da inserire nell’azienda per specifici motivi di crescita o nelle università per completare un corso, i venture capitalist per valutare la posizione di certe persone all’interno della società e comprendere se sei in grado di collegarli a un’opportunità di investimento oppure valutare il processo di raggiungimento degli obiettivi delle società o, ancora, valutare profili che sono nella tua rete. Assicurati che tu sappia esattamente chi sta guardando il tuo profilo e cerca di capirne il motivo. La soluzione migliore è aggiungerli e domandare come abbiano raggiunto il tuo profilo e perché. Clicca nel box che trovi nello stesso posto che ho selezionato per te nel mio profilo.
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  • Unisciti, segui, modifica e aggiungi. Una volta che sei entrato nella pagina per vedere le tue visualizzazioni avrai la possibilità di SEGUIRE o AGGIUNGERE professionisti, MODIFICARE o UNIRTI a gruppi che possano aumentare la tua visibilità sulla piattaforma. Ogni azione ti permette di ottenere una certa percentuale. Puoi misurare la tua percentuale totale con il Social Selling Index. Questo indice misura la tua performance sulla base di quattro elementi essenziali: creare il brand professionale, trovare le persone giuste, interagire con informazioni rilevanti e costruire relazioni.

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  • Conferma e raccomanda i tuoi amici. Una delle cose migliori da fare è confermare tutte le persone che conosci che sai stanno svolgendo un gran lavoro nello sviluppare le loro abilità. Nello stesso modo in cui tu raccomandi loro, loro faranno lo stesso con te e la tua presenza sarà sempre più efficace. I recruiter e i professionisti controllano anche le tue abilità: è importante per loro conoscere come ti considerano le persone nella tua rete. Si tratta di un modo affidabile per provare la tua onestà e le tue capacità.
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  • Pubblica giornalmente aggiornamenti cool sulla tua società/industria. Adesso è il momento di dimostrare le tue abilità pubblicando aggiornamenti interessanti. Per catturare l’attenzione di persone rilevanti per te, dovrai essere SEXY. Perché sexy? Le persone devono pensare che tu sia una risorsa interessante di news. Immagina di essere un giornalista: devi condividere informazioni a cui le persone nella tua rete siano interessate giornalmente. L’uso di immagini aiuterà a incuriosire la tua audience verso i tuoi aggiornamenti. Ricorda: sii professionale, questo social non è come Facebook. I professionisti vogliono leggere cose interessanti sul loro business, molto spesso lo fanno nelle ore di lavoro (non essere noioso).
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  • Scrivi cose interessanti. Similmente a come leggi questo articolo, dovrai fare la stessa cosa per te stesso: scrivere articoli ti permette di essere riconoscibile come professionista che parla di argomenti per professionisti, anche dando suggerimenti o essendo utile ad altre persone. Starai creando un flusso di articoli e contenuti rilevanti per il tuo network. Scrivi un articolo alla settimana.LinkedIn8
  • Misura i tuoi risultati – Social Selling Index. Ancora un piccolo sguardo al Social Selling Index. Voglio raccontarti una storia breve: ho iniziato a lavorare sul mio SSI per divertimento. Ai tempi stavo facendo una gara con un amico/collega, Marco Aspesi, che consisteva nel raggiungere una percentuale superiore alla sua. Il mio SSI ha iniziato a crescere e a crescere. Allo stesso tempo ho iniziato a catturare l’attenzione di molti professionisti in tutto il mondo. Fino a quando un giorno ricevo un messaggio in InMail (solo per account premium): un recruiter mi contattava per un’opportunità di lavoro in una società di San Francisco. Purtroppo non stavo cercando lavoro e ho rifiutato l’opportunità. Ma questa storia dovrebbe essere utile a capire la rilevanza di questo strumento e la sua affidabilità.LinkedIn9
  • Riparti di nuovo. Continua a sviluppare questo processo giornalmente e/o settimanalmente e vedrai un grafico in crescita nel tuo profilo e nelle tue opportunità.

 

 

Ho provato un misto di diversi sentimenti di fronte alle polemiche susseguite alla cena alla Casa Bianca dedicata da Obama all’Italia come ultimo evento della sua presidenza.

Quello che tutto il mondo ha visto come “un importante segno di attenzione all’Italia e al suo governo” (parole di Ferruccio de Bortoli), in Italia è stato vissuto in modo inspiegabilmente negativo. Critiche, polemiche, commenti bassi e feroci che non hanno risparmiato neanche la splendida atleta paralimpica Bebe Vio, invitata a fare parte della delegazione.

Una buona regola che cerco di applicare è di astenermi dal commentare quando la pancia tende ad avere il sopravvento sulla testa. Oggi mi sono imbattuto in diversi post che esprimono, meglio di come potessi mai immaginare di fare, il mio pensiero sul tema. Tra questi quello di Riccardo Cazzaniga che, in riferimento al selfie del Presidente Obama con la nostra campionessa, commenta “Questa foto racconta di quanta strada abbiamo fatto, di dove siamo arrivati oggi, sempre più lontano dagli obbrobri del passato[…]Fate largo, perdenti, che qui siamo di fronte a due campioni”.

E poi quello di Caterina Bonetti che, in particolare, tocca, in modo garbato e puntuale, il grande male (soffuso e diffuso) che affligge il nostro bellissimo paese: “l’astioso tentativo di trascinamento in basso di chi sembra avercela fatta. Poco importa se con impegno e sacrificio”. La filosofia del “se sto male io devono star male anche gli altri”, che è solo acuita dalla crisi ed è – come discusso in altre occasioni  – un connotato strutturale della nostra cultura.

Quindi giusto seguire un’altra regola: dare spazio agli altri quando sono in grado di dare un contributo migliore del tuo.
Qui il link al bell’articolo di Caterina. Da leggere due volte al giorno, mattina e sera.

La prima app mobile che elimina gli occhiali da lettura

Ma oggi cosa non è possibile fare tramite il nostro smartphone? Davvero poche cose restano tagliate fuori. Lavoro, entertainment, relazioni sociali, open pubblica amministrazione, servizi di varia natura, tutto è mediato dall’uso del nostro cellulare. Anche l’healthcare non ne è immune. Pensiamo alle App per il fitness o ai device wearable connessi al nostro cellulare: il nostro stato di salute viene decodificato in cifre e statistiche e quindi in suggerimenti su come ridurre i tempi di corsa, bruciare in maniera efficiente le calorie, migliorare il nostro peso-forma. Un processo di analisi “mediato” dalla lettura dei dati attraverso software contenuti nei nostri cellulari, ormai piccole intelligenze formato tascabile verso cui abbiamo maturato una certa dose di fiducia.

Ma se vi dicessimo che da oggi potete anche migliorare la vostra vista, “leggendo” uno smartphone? Impossibile? Invece è già realtà.
Viene lanciata oggi infatti anche in Italia GlassesOff, applicazione dell’azienda israeliana InnoVision Labs disponibile sull’App Store e il Play Store che promette a chi la scarica di eliminare completamente la dipendenza dagli occhiali da lettura semplicemente allenandosi tre volte a settimana (in sessioni di 10-12 minuti) per due-tre mesi.

Una promessa a prima vista (per stare in tema) impegnativa ma corroborata da una massiccia base di studi scientifici (tra cui 4 brevetti e una ricerca condotta alla Berkeley University che l’ha validata), dall’evidenza dei risultati e dal successo che ha riscosso dapprima negli Stati Uniti, poi in Francia (dove in soli 5 mesi ha spopolato diventando la app n.1 in ambito medico e finendo citati in prima pagina su Le Parisien) e in Belgio.

Ne siamo venuti a conoscenza tramite Samuel Raccah, ingegnere gestionale italiano di soli 23 anni che dopo aver conseguito un master in Israele è stato chiamato a guidare le Operations di GlassesOff. Fondata nel 2007, vi lavorano oggi 35 persone suddivise tra gli uffici di New York e Tel Aviv, dove ha sede tutta la R&D. La sua storia ci ha incuriositi e così abbiamo deciso di saperne di più facendo due chiacchiere con il CEO Nimrod Madar. 

LEGGI L’INTERVISTA

Ormai giunti a fine anno vi lascio un pensiero banale, che, nella realtà dei fatti, almeno in Italia, non sembra esserlo.

Chi innova non lo fa per andare contro qualcosa o qualcuno. Chi innova fa con l’obiettivo di creare una esperienza nuova o diversa, o semplicemente migliore.

Invece, come segnala Stefano Quintarelli in un bel post da leggere tutto in fiato, “la declinazione nostrana (dell’innovazione) è spesso l’eroe che combatte e ce la fa nonostante/contro l’ambiente“. E, di conseguenza, “la celebrazione pertanto non è tanto a favore dell’eroe quanto contro l’ambiente di cui si esaltano le esistenti negatività“.

E, aggiungo io, quando il nostro eroe (l’innovatore) riesce – nonostante tutto e tutti – a farcela, cessa di essere un eroe e assume a sua volta una connotazione negativa. Viene additato come colui che modifica l’ordine esistente, inevitabilmente a danno di qualcosa o qualcuno.

Uber, Airbnb, o, scendendo alle nostre latititudini, Guide Me Right e Cocontest sono percepite come aziende che vanno contro: tassisti, albergatori, guide turistiche, architetti, etc.

La realtà dei fatti è che sono aziende che hanno identificato dei vuoti o delle inefficienze di offerta e hanno saputo costruire dei servizi migliori o diversi.

Esiste certamente un problema di regolamentazione. Ma, prima di questo, esiste un problema culturale. Esiste in Italia una sostanziale incapacità di accettare il cambiamento. Che si traduce nella preferenza ideologica di una brutta realtà di cui siamo – volenti o nolenti- corresponsabili rispetto al tentativo di crearne una migliore o diversa. Che ci porta a preferire di restare a bordo di una nave che affonda piuttosto che provare a salire su una nuova senza sapere che posto ci verrà assegnato.

Eppure, sempre rimprendendo le parole di Stefano, “il cuore dell’innovazione è proprio questo: confrontarsi con un ambiente reazionario, ostile, e determinarne un cambiamento“.

Buon anno.

 

Tutte le settimane ricevo tante mail e messaggi da parte di startup o aspiranti imprenditori a cui mi è quasi impossibile dare risposta (in primis perché è ragionevolmente improbabile dare consigli sensati a progetti senza avere la possibilità di spenderci del tempo insieme). Di solito la mia risposta standard è: fate application a un programma di accelerazione (senza andare in Silicon Valley, ce ne sono tanti fortunatamente anche in Italia da cui è possibile ricevere supporto e prime indicazioni).

Venerdì mattina una mail ha attirato la mia attenzione, forse per il tono garbato e personale con cui era scritta. Ne riporto un estratto sotto.

“Egregio Professore,
perdoni la mia intromissione, ma ho un’idea! Immagino sia abituato a sentire questa frase e credo che la sua risposta sia: compili l’application form per Mind the Bridge o un altro acceleratore.  Le parlo di me così può farsi un’idea (…) Tuttavia, prima di compilare un application form, vorrei chiederLe qualche minuto per presentarLe la mia idea così da poter avere un giudizio critico e sterile. Ritengo che Lei possa evidenziare immediatamente delle eventuali criticità insuperabili, permettendomi di valutare se esistono le condizioni reali per continuare a credere in questo progetto ovvero accettare lucidamente di doverlo accantonare. Se avesse disponibilità e piacere, potrei venire da Lei anche lunedì mattina (26 ottobre) (…). “

Così, nel pomeriggio, gli ho proposto di raggiungermi a Varese per discutere la sua idea insieme a me e ai miei studenti del Corso di Global Entreprenuership and Management (GEEM)  (una cinquantina, di cui la metà non italiani).

“Posso darle uno slot di presentazione di 30 minuti il 26 mattina a Varese: in aula, davanti ai ragazzi del corso di Entrepreneurship, da fare in inglese. 5-10 minuti di presentazione, 20 di Q&A. Resta sempre valido: Compili l’’application form per Mind the Bridge”.

La risposta non si è fatta attendere:

“Egregio Professore, La ringrazio per l’opportunità. I suoi ragazzi mi faranno nero ma è quello di cui ho bisogno. Ci vediamo lunedì.”

Ieri, alle 12, mi ha raggiunto in aula a Varese. Partito la mattina all’alba dall’Abruzzo. Con il sorriso sulle labbra e la disponibilità ad ascoltare commenti, critiche e suggerimenti.

Non so se la mezz’ora sia valsa il viaggio. Non sono certo che l’idea sia solida a sufficienza. Ma l’attitudine è quella giusta.

La Nuova Italia che avanza – che spesso celebriamo in questa colonna – passa da persone come Andrea Polisini. Che non si siedono su quello che hanno, che colgono le opportunità quando e dove gli vengono proposte e sono disponibili a rimettersi in discussione. Di certo una grande lezione per i nostri studenti.

Il nuovo e il diverso spaventa. Il cambiamento spaventa.

L’imprenditorialità ci insegna a vedere il cambiamento come una incredibile opportunità.  E quindi a reagirvi in modo positivo e proattivo.

Non ho titolo per esprimere pareri qualificati di fronte alla tragedia immane dei migranti che si sta consumando alle porte dell’Europa. Mi limito a riportare dei dati ripresi da un rapporto di Kleiner Perkins Caufield & Byers (una delle prime società di venture capital della Silicon Valley) che mostra il ruolo che gli immigrati hanno giocato nella creazione dei giganti high-tech americani.

Il 60%  delle top 25 tech company (per capitalizzazione di borsa) ha tra i suoi fondatori immigrati, di prima o seconda generazione.

Tra queste le prime tre: Apple dal figlio di un siriano, Google da un immigrato russo (Sergey Brin), la stessa IBM da Herman Hollerith, tedesco di seconda generazione.

Messi insieme fanno 1,600 miliardi di dollari di valore, ma soprattutto oltre 500 miliardi di dollari di fatturato e quasi 1,2 milioni di posti di lavoro. Non male.

Volete avere crescita ed innovazione? “Welcome immigrants“. Lo dice E.J. Reedy, Director of Research and Policy della Kauffman Foundation (qui l’articolo in cui ne avevamo parlato). Lo dicono i numeri (e non solo).

 

Dicono che il primo incontro tra una startup e un investitore sia molto simile ad un primo appuntamento. Molto, se non tutto, si decide negli istanti iniziali, il tempo necessario per un “elevator pitch”. Circa 30, interminabili secondi bastano per vedere se la scintilla è scattata o meno.

Per affrontarli, serve passione, ma anche freddezza e preparazione. Soprattutto, serve saper raccontare la propria business story in modo da ispirare ed incantare l’interlocutore. Lo spiega molto bene l’ex-evangelist di Apple Guy Kawasaki nel suo illuminante libro “Enchantment”: “the goal is not merely to get what you want but to bring about a voluntary, enduring, and delightful change in other people“.

Se pochi attimi bastano per fare scattare la scintilla, non bisogna illudersi che in breve tempo si possa tornare a casa con un finanziamento in tasca.
Il fine è arrivare ad un secondo incontro, e poi ad un terzo e, così via, fino alla firma dell’accordo. Un percorso a tappe, strutturato, a volte estenuante, lungo tutto il quale c’è sempre il rischio che la fiamma si spenga. Ecco perchè, da YCombinator, si raccomanda alle startup sintesi (“less is more, go to the point, say enough to get a date“) ma anche la capacità di chiudere il deal in tempi brevi (“no more than a week to get you laid“) perchè, se sei una startup, il tempo gioca solo a tuo sfavore.

Sabato, nel cuore di Berlino, presso l’innovativo spazio di coworking Betahaus, oltre 20 startup da tutta Europa potranno mettere in pratica questi principi in sessioni di “speed-dating” con 6 investitori (tra cui anche corporate venture capital e acceleratori).

L’incontro sarà organizzato dalla fondazione Mind the Bridge nell’ambito del progetto europeo “Welcome” e nel contesto dell’Investors Day del Festival “People in Beta”. Che c’è di nuovo?

Gli incontri si svolgeranno a bordo di limousine Audi, sulle strade del quartiere di Kreuzberg. Ciascuna startup avrà a disposizione 10 minuti con gli investitori. Saranno sufficienti per far scoccare la scintilla?

Per uno startupper, se sfruttare occasioni come queste è fondamentale, sbagliare è parimenti utile. Chi scenderà dalla limousine senza essere riuscito a convincere l’investitore, dovrà chiedersi cosa non ha funzionato e lavorare per essere più convincente al prossimo giro. Tempo ben speso, comunque.