Categoria "New York City"

Ricordo ancora le parole con cui Paolo Bonaccorsi, nel 2010, si è presentato al primo giorno alla Startup School a San Francisco: “Hy everybody, my name is Paolo Bonaccorsi, I’m a professional photographer and creative director of an Ad Production Agency (Bcrome) I’ve cofounded in 2006 together with Silvia Bosio and Bosio…“.

Mi ricordo di averlo interrotto dopo qualche minuto e di avergli chiesto: “Sì, interessante, ma cosa vuoi fare veramente?“.

Oggi, con tra le mani l’ultimo modello della W-Lamp nella sua elegante Recycled Paper Envelope che Paolo mi ha inviato per Natale, mi viene da sorridere pensando a quanto poco serva per innescare il talento.

E Paolo Bonaccorsi, quarantreenne piemontese, è un tipico esempio di talento, cultura e passione italiana in cerca di una miccia per essere innescata. Di formazione umanistica, prima di arrivare a San Francisco, lavorava in una agenzia pubblicitaria (o meglio di produzione e postproduzione pubblicitaria come ama definirla lui) in cui stava sperimentando modelli diversi da quelli in uso dalle agenzie tradizionali, che cercassero di valorizzare le nuove tecnologie. Oggi, tre anni dopo, è alla guida di W-Lamp, una azienda che realizza lampade ed oggetti di design realizzate in carta.

Paolo, cosa è successo alla Startup School a San Francisco?

Volendo sintetizzare potrei dire che è stato una sorta di colpo di fulmine… una “folgorazione sulla via di San Francisco”.

Procediamo con ordine, come sei arrivato a San Francisco e come hai incontrato Mind the Bridge?

Avevo sentito parlare di Mind the Bridge per la prima volta circa quattro anni fa, prima che  il termine “startup” diventasse più di moda delle scarpe con la zeppa. Avevo letto diversi articoli che parlavano di loro su Wired, altri on-line e avevo visto anche un servizio delle Iene in televisione  … Con scarsa convinzione di essere preso in considerazione, nell’estate del 2010, avevo mandato una bozza di business plan di un idea che avevo nel cassetto da tempo unitamente al mio cv. E, un pò stupito, ricordo di avere ricevuto una mail che mi comunicava la mia ammissione alla Mind the Bridge Startup School.

Così, nell’ottobre del 2010, sono partito per SanFrancisco. Inizialmente la ho vissuta un po’ come la chiamata al servizio militare: non riuscivo a capire cosa potesse centrare un personaggio come me, con un background sostanzialmente umanistico e artistico, con la culla dell’ingegneria informatica. Ma, giorno dopo giorno, mi sono subito reso conto di quanto invece fossi nel posto giusto!

Continuo ad essere ignorante come un paracarro in termini ingegneristici, ma quest’esperienza ha radicalmente cambiato il mio modo di analizzare le situazioni, mi ha insegnato il vero valore delle idee e la capacità di intuirne la possibilità di realizzazione. Quell’idea per cui avevo presentato il business plan è rimasta nell’iperuranio … ma il seme della “creative enterpreneurship” si era ormai radicato.

Quell’esperienza con Mind the Bridge a San Francisco, insomma, per me ha rappresentato una contaminazione con  “state of mind” nuovi e costruttivi. Da allora, si può dire che non abbia più abbandonato Mind the Bridge… Ho seguito quanti più eventi possibile, documentandoli fotograficamente. Ho anche realizzato un  libro fotografico per cercare di rappresentare questa esperienza emozionale.

Che cos’è W-Lamp?

Mi piace definirla una “Startup Low Tech” …  Apparentemente potrebbe sembrare un ossimoro. L’accezione comune del termine si associa con aziende ad alto contenuto tecnologico … ma è anche vero che W-Lamp affonda le sue radici, quantomeno filosoficamente, nella San Francisco di Mind the Bridge.

Si tratta di un’azienda specializzata nel design e produzione di oggetti e complementi d’arredo in carta e cartone. Stiamo però lavorando per introdurre una certa qual “intelligenza” nei nostri prodotti della prossima generazione. Ad esempio, negli ultimi mesi dell’anno, è nata una solida partnership con NTS-LabDieciCento, una società di “creative engineering” di Torino. Con loro stiamo sviluppando lampade “capacitive” (che si accendono semplicemente sfiorandone la superficie in carta), lampade “web sensitive” (modificano il loro stato in funzione dei tweet ricevuti o delle notifiche di Facebook), sistemi attivi e passivi di diffusione sonora (casse audio, insomma) interamente cartacei, sistemi olografici interattivi di cartone … e molto altro ancora.

Com’è nata l’idea di W-Lamp?

Di fatto abbiamo voluto provare ad applicare tutte l’esperienze di paper engineering, cartotecnica e pensiero laterale accumulati in anni di pubblicità ad un idea di prodotto anziché di servizio… Potrebbe sembrare banale, ma il passaggio da una logica di servizio ad una di prodotto rappresenta un salto acrobatico multiplo … e, anche in questo caso, ci è venuto in aiuto lo “state of mind” assimilato a San Francisco.

L’idea è nata circa un anno e mezzo fa dall’esigenza di un cliente  di avere una confezione regalo “particolare” per le sue bottiglie di vino. Creammo, così, una scatola mono-bottiglia che poteva trasformarsi in lampada da tavolo. Da qui il nome “W-Lamp” che in origine significava “Wine Lamp“. Decidemmo di brevettare il design e il modello funzionale e provammo a produrre i primi prototipi in una quantità sufficiente da fare dei test di mercato.

Per quanto i primi modelli fossero grezzi, goffi, approssimativi e mal assemblati, la risposta del pubblico fu notevole. Questo ci ha stimolato a creare una sorta di “business unit”, sempre più autonoma rispetto al resto dell’azienda, un po’ come successe al gruppo Mac creato da Steve Jobs in seno alla Apple (so che può sembrare una bestemmia, ma trovo il paragone entusiasmante). Qui abbiamo potuto perfezionare il prodotto e fare tutte le sperimentazioni che ci hanno permesso di definire le caratteristiche necessarie per ottenere le certificazioni per il mercato europeo (TUV) e per il mercato americano (UnderWriters Laboratory). Quest’ultimo ha un istituto per la certificazione che applica i protocolli più rigidi e severi in assoluto… per noi riuscire a superarli con una lampada interamente in carta è stata una vera conquista!

Quindi abbiamo evoluto il concetto della iniziale Wine Lamp ma mantenuto il nome che oggi può essere declinato come “Weird Lamp” o “Wow Lamp” o anche “Whateveryoulikemadeoutofpaper Lamp“.

Ed ora il mercato americano vero?

Sì, nel novembre del 2012, grazie al supporto di Fernando Napolitano (ecco di nuovo che la stella di Mind the Bridge ha vegliato su di noi) entriamo in contatto ExportUsa, una società di business development italo-americana collegata alla Chamber of Commerce Usa-Italy. Nascono così, nell’aprile del 2013, gli uffici W-Lamp a New York (siamo in 18, Bridge street, Brooklyn). In meno di sei mesi abbiamo raggiunto dei risultati che hanno del prodigioso:

– oltre sessanta clienti consolidati (tra retailers e wholesalers) su tutto il territorio americano;

– referenze in quasi tutti i gift shop dei musei delle principali città della East Coast;

– articoli e recensioni (spontanei) sul Los Angeles Times e Country Living;

– richieste e feedback dai principali market places on-line americani ( The Groomet, UncommonGoods, Think geek).

Tutto questo in meno di un anno e con le nostre, scarse, risorse… Il 2014 sarà, dunque, dedicato alla crescita strutturale dell’azienda e al suo consolidamento, ricercando partnership  e capitali.

E, vista la qualità e, soprattutto, la attenzione e la cura dei particolari dell’oggetto che ho tra le mie mani (confezione inclusa), sono convinto che ce la farete. Il talento ha bisogno solo di un innesco per sprigionarsi. E in Italia ne abbiamo tanto. #Inneschiamolo.

A New York settimana prossima si parlerà di Italia e di Europa. Italian Business & Investment Initiative organizza infatti il forum “Italy Meets United States of America”, che si aprirà alle 8 della mattina dell’11 febbraio 2013 alla Peterson Hall di New York, con l’obiettivo di presentare ai principali opinion maker statunitensi le potenzialità e la forza dell’Italia dalla viva voce di coloro che compongono il sistema produttivo italiano e rappresentano le eccellenze e i punti di forza della nostra economia.

L’incontro sarà moderato da Gideon Rose (direttore del Foreign Affairs Magazine) e prevede due panel che affronteranno temi legati alla situazione economica e politica del nostro Paese. L’apertura del convegno sarà celebrata con la lettera di benvenuto del sindaco di New York, Michael Bloomberg, e con l’introduzione dell’ambasciatore statunitense in Italia David Thorne.

Il primo, focalizzato su temi economici, raccoglierà gli amministratori delegati di Alitalia (Andrea Ragnetti),  ENEL (Fulvio Conti), di ENI (Paolo Scaroni), di Intesa Sanpaolo (Enrico Cucchiani) e di Wind (Maximo Ibarra) che porteranno la loro visione sull’economia del nostro paese e spiegheranno come le loro società stanno affrontando il mercato. Si parlerà anche della Borsa Italiana e dei rischi e delle opportunità legati alla nostra economia. L’obiettivo è discutere sulle principali sfide legate ai vari settori dell’economia Italiana e sulle previsioni sull’economia durante il 2013.

Il secondo panel sarà, invece, maggiormente focalizzato sugli aspetti politici ed istituzionali del nostro Paese. Giuliano Amato, presidente del Consiglio dei Ministri dal 1992 al 1993 e dal 2000 al 2001, e Vittorio Grilli, Ministro dell’Economia e delle Finanze, dibatteranno, insieme all’ambasciatore Thorne, sulla situazione politica italiana a due settimane dalle elezioni, con una particolare attenzione proprio agli scenari post-elezioni e alle riforme . Inoltre si parlerà di come l’Unione Europea affronterà il 2013 e di come possono cambiare gli equilibri tra i singoli stati membri e le istituzioni Europee. Si discuterà anche della politica di austerità che molti paesi membri stanno affrontando e dei rapporti con la Germania.

Oltre 200 persone, tra corporate leader americani del mondo dell’industria, della finanza e dei media hanno già confermato la loro presenza.

Sarà possibile seguire l’evento in streaming (con inizio alle ore 14 italiane). Qui il link per entrare virtualmente nella Peterson Hall di New York.

 

 

Settimana scorsa abbiamo avviato una nuova rubrica settimanale (dal titolo La nuova Italia che avanza) dedicata a quelle nuove imprese italiane (le cosiddette startup) che sono riuscite ad emergere o sono sulla giusta strada per farlo.
Abbiamo inaugurato la rubrica parlando di Fubles, piattaforma innovativa per la organizzazione di partite di calcetto e prenotazione dei campi di gioco. 
Fluidmesh_logo2.jpgOggi cambiamo settore ed ambito di attività, introducendo Fluidmesh Networks, una società italo-americana che realizza  trasmettitori radio.
Fondata da quattro ventenni (Umberto Malesci, Cosimo Malesci, Andrea Orioli e Torquato Bertani) nel 2005 lo scorso 8 aprile Fluidmesh si è fusa con l’azienda americana AvrioRMS creando il gruppo Carrick Bend.
Un’espansione in soli sei anni non da poco, considerando che, prima dell’operazione di fusione, l’azienda già contava circa 15 addetti in 5 diversi paesi e che ora, conta 50 persone, con uffici a Chicago, Boston, Washington DC, Denver, Lima, Milano, Parigi e Birmingham e un giro di affari di qualche decina di milioni di dollari.
Ma come è riuscita l’azienda ad arrivare fino qui? Quali sono state le sfide che ha dovuto affrontare, quali sono stati gli insegnamenti appresi?
Umberto Malesci_fototessera.jpgNe parliamo con Umberto Malesci, fondatore e CEO di Fluidmesh Networks, oggi Vice-Chairman alla guida del gruppo Carrick Bend.

Umberto, raccontaci brevemente la vostra storia. Cosa fate, come vi siete trovati a lavorare insieme
Molto volentieri. In realtà abbiamo cominciato a lavorare sul progetto qualche anno fa, si parla oramai del “lontano” 2005. Eravamo 4 giovani studenti del MIT (Massachusetts Institute of Technology) e del Politecnico di Milano, tutti ventenni e con tanta voglia di fare. Due di noi eravamo fratelli (!!!) quindi ci conoscevamo da tempo, poi avevamo tirato dentro un vecchio amico (Torquato) e un suo compagno di università (Andrea). Tutti ingegneri, tre informatici e uno navale. L’idea dell’impresa è nata dalla voglia di partecipare a una business plan competition che si tiene ogni anno a MIT e allora si chiava 50K (oggi si chiama 100K). La competition andò male perche fummo buttati fuori al primo turno, ma scrivendo il business plan ci rendemmo conto che i potenziali clienti che contattavamo erano entusiasti della nostra idea di prodotto  e questo ci spinse a andare avanti e creare un primo prototipo… che vendemmo al primo cliente.

Cosa vi ha fin da subito orientati al mercato statunitense?
Ci siamo focalizzati fin da subito sul mercato della sicurezza e della video-sorveglianza, soprattutto in Nord America, offrendo trasmettitori radio per applicazioni di controllo del territorio urbano. In particolare abbiamo sviluppato un sistema che permette la videosorveglianza wireless distribuita sul territorio senza però compromettere l’affidabilità del sistema rispetto alle soluzioni via cavo. Questo problema è molto sentito in grandi città come ad esempio New York e Chicago, motivo per cui fin da subito abbiamo puntato sul mercato del Nord America. Avevamo la necessità e l’ambizione di far crescere rapidamente l’azienda e il mercato americano era abbastanza grande da consentirci la crescita rapida e soprattutto espandersi in un mercato che parla una sola lingua è molto più facile rispetto all’Europa. Inoltre il fatto di aver studiato a Boston ci ha permesso di conoscere un po’ più da vicino quella realtà.

Cosa vi ha spinto a cercare finanziamenti?
Il mercato della sicurezza e della video-sorveglianza cresce con una percentuale del 30% l’anno. Numeri non indifferenti per un investitore che deve valutare se investire o meno nella tua azienda.
Ed infatti ci è andata bene. Abbiamo partecipato a luglio 2009 all’edizione 2010 della Mind the Bridge Business Plan Competition arrivando a vincere la finale a New York il successivo aprile 2010! Grosse soddisfazioni. Fino a che dopo lunghe ricerche e  estenuanti conference call con potenziali investitori siamo riusciti a suscitare l’interesse degli investitori Generation 3 Capital e Waveland Investments, due fondi di private equity di Chicago che hanno finanziato l’operazione di fusione tra Fluidmesh Network e AvrioRMS, dando vita al nuovo gruppo Carrick Bend.

Ecco Umberto, fermati qui. Tra i nostri lettori ci sono startup alla ricerca del primo round di finanziamento. Vuoi spiegarci un po’ più in dettaglio come si è svolto il fundraising dal momento in cui avete avuto l’idea ad oggi, quali sono stati i problemi che hai riscontrato?
Prima dell’arrivo di Generation 3 Capital e Waveland Investments Fluidmesh è stata finanziata senza nessun investimento in equity da parte di “investitori istituzionali”. Abbiamo finanziato l’azienda racimolando soldi in giro: abbiamo fatto ricorso a finanziamenti agevolati di tipo regionale e statale in Italia, qualche finanziamento bancario, soldi di parenti e amici e soprattutto i soldi dei nostri clienti che compravano il nostro prodotto e lo pagavano caro… diciamo che a questo punto abbiamo usato tutte le forme di finanziamento che esistono a mondo partendo dai clienti che sono sempre la migliore!!!

E invece il deal con gli investitori di Chicago?
Quello è stato peggio di un parto. Abbiamo negoziato per quasi 4 mesi per avere una LOI (letter of intent) a metà settembre 2010, alla quale sono seguiti altri circa 9 mesi di due diligence e negoziazione dei contratti finali e un closing ad aprile 2011 a Las Vegas! Questo di certo insegna che ci vuole tanta pazienza, tanto tempo e che, finchè non si arriva alla chiusura formale del deal, tutto può succedere, davvero tutto. È una sfida, quasi una battaglia con i suoi colpi di scena da film, ma se si riescono a superare queste difficoltà si raggiungono obiettivi incredibilmente ambiziosi.

E visto con gli occhi di oggi, ne valeva la pena?
Ora mi ritrovo Vice-Chairman del gruppo Carrick Bend, in pratica riporto al consiglio di amministrazione in cui siedono, gli investitori, i fondatori di AvrioRMS e i fondatori di Fluidmesh. Di fatto io e gli altri membri del team, nonostante la nostra giovane età, ricopriamo un ruolo di leadership all’interno della nuova organizzazione che integra prodotti wireless (Fluidmesh) e fornitura di servizi e sistemi chiavi in mano (AvrioRMS), sviluppando sistemi di grandi dimensioni che oggi rimangono alla portata di poche aziende al mondo.

Un vero e proprio esempio di successo, che ancora una volta è dimostrazione che il talento degli italiani è riconosciuto anche all’estero.
Grazie Alberto. È bello poter essere la prova del fatto che un’azienda creata da 4 ventenni (ad oggi alcuni trentenni da qualche mese..) italiani possa non solo crescere e avere successo, ma anche essere di interesse per investitori americani che sono dovuti venire fino in Italia per trovare le competenze e la tecnologia di cui avevano bisogno per mettere in pratica la loro strategia di espansione. Ci hanno valutati per le nostre competenze, energia ed entusiasmo, non per l’età anagrafica come spesso avviene qui in Italia, dove la classe manageriale e imprenditoriale hanno quasi sempre i capelli bianchi. Questo ci rende orgogliosi per quello che siamo riusciti a conquistare con determinazione e sacrifici e felici di poter trasmettere segnali positivi a tutte le startups che come noi hanno il grande sogno di veder decollare il loro business e cercano gli strumenti per farlo.

Però niente fuga di cervelli in questo caso, ma sviluppo dell’occupazione anche in Italia?
Vero, Fluidmesh continuerà a sviluppare il proprio software e la propria tecnologia in Italia presso la propria sede a Milano dove lavorano 7 persone ma con potenziali piani di espansione per lo sviluppo di una nuova business unit di cui però ad oggi non posso dire di più.

Umberto, grazie per averci dato molti spunti interessanti per riflessioni e commenti, ma soprattutto hai comunicato un messaggio forte: riuscire si può, anche se si è italiani, anche se si è giovani, anche se si vive in Italia. Non bisogna dimenticare però che è essenziale avere una visione a 360 gradi, spostarsi all’estero se occorre, essere capaci di cogliere le opportunità là dove arrivano. È quello che hai fatto tu che sei riuscito a raccogliere capitale e a far partire un business che ora può contare sedi in 5 diversi paesi. È quello che fanno alcune organizzazioni come Mind the Bridge al fine di creare un ponte tra Italia e Silicon Valley che permetta alle startups di sfruttare le innumerevoli occasioni che si originano nella culla dell’innovazione. La logica alla base è quella del “give back”; trarre beneficio dai vantaggi di un ecosistema estremamente favorevole all’imprenditorialità e riportare parte dei risultati e delle risorse in Italia.

Questa settimana il Financial Times ha pubblicato un articolo di commento sulla situazione italiana, sul suo effettivo rischio di fallimento e sulla possibilità da parte dell’Unione Europea di coprirlo.
Rimando alla lettura dell’articolo per avere un quadro completo dell’immagine che il nostro paese ha sui media internazionali. Mi limito a ricapitolare i punti principali.
1) “Italy is too big to bail“. L’Europa può digerire il Portogallo, forse la Spagna, ma l’Italia no.
2) “Italy has high debts but it also has high private savings“. E’ vero che il debito pubblico italiano è molto grande ma il livello dei risparmi è parimenti alto.
3) “Most Italian debt is still bought domestically“. Gran parte del nostro indebitamento è verso l’interno e quindi, nonostante il livello del debito sia molto alto, l’esposizione verso l’estero è ridotta. Sul punto avevamo già parlato in un precedente articolo.
4) “Italian budget deficit is relatively moderate at just over 4 per cent of GDP“. Anche in tempi di crisi va dato atto che il nostro debito non sia cresciuto tanto.
5) “There is no example in history of a debt the size of Italy’s ever being paid back“: Tuttavia la sua riduzione è un esercizio non particolarmente semplice ed immediato.
6) “Italy has lived with chronic debt for years“. L’Italia è abituata a convivere con un alto debito ma lo ha fatto in passato seguendo una strada – l’inflazione (“inflation is a way of life, like tomato sauce with spaghetti“)- che è incompatibile con la moneta unica.
7) E qui emerge una forte differenza di approccio (“differences of culture and temperament“) che potrebbe minare le fondamenta della casa comune europea, che è l’unica cosa cui ad oggi non possiamo fare meno.
Della reale posizione dell’Italia e delle sue prospettive parleremo a New York il prossimo 5 maggio nell’ambito dell’Italian Innovation Day. In quell’occasione presenteremo il white paper “Why Italy matters to the world” che ho scritto insieme a Richard Vietor (Harvard Business School) e Fernando Napolitano con il supporto del Centro Studi di Banca Intesa Sanpaolo.
Per chi potesse esserci ci vedremo al Metropolitan Club, per chi non ne avesse l’occasione daremo seguito su questo blog.

PS. Grazie a Massimo Cortili per la segnalazione dell’articolo.

logoIID-su-trasp-1.png

logoIID-su-trasp-1.pngIn questo giorni di ritrovato sano patriottismo, il nostro Paese si trova davanti ad un ennesimo paradosso.
Da una parte, finalmente, si ha l’impressione che si stiano moltiplicando gli sforzi per ridare all’Italia una dignita’ di paese che cerca di scrollarsi di dosso il torpore dell’ultimo decennio.
Dall’incontro alla camera dei deputati sul tema della banca dell’innovazione aperto dal premio Nobel Phelps, al tour dei 1000 innovatori aperto dal Presidente Napolitano, all’iniziativa di Alessia Mosca per le approvazioni delle quote rosa nei consigli d’amministrazione.

Dall’altro pero’, la realta’ con cui ci si confronta, soprattutto chi, come il sottoscritto, vive all’estero da tempo, e’ quella dipinta dal quotidiano l’Indipendent alcuni giorni fa.
Quando parli d’Italia all’estero, sono comunque ancora la Cardinale, i gondolieri e il  “dolce far niente” a farla da padrone,

Proprio in questo contesto, si inserisce l’idea della necessita’ di costituire un Italian Innovation Day.
Il contenuto e’ esemplificato dal suo sottotitolo: “Why Italy matters to the world“.

Presentare al mondo cio’ che l’Italia ha da offrire in quanto a innovazione, e presentare, alle imprese italiane piu’ innovative, un mondo di opportunita’.
Si tratta della naturale evoluzione degli eventi di presentazione delle startups piu’ innovative che da 4 anni la Mind the Bridge foundation organizza negli Stati Uniti.
L’elemento di novità è rappresentato dalla sua estensione per includere, oltre a startups, anche aziende già stabilite, sia pure di dimensioni non grandi, che si distinguono per la portata innovativa dei loro prodotti e servizi.

L’altra novità è costituita dal tentativo di fare sistema. Un evento del genere richiedeva uno sforzo congiunto tra diversi attori. Di qui il coinvolgimento, accanto a Mind the Bridge, di Intesa Sanpaolo, che promuove con successo la Startup Initiative, e Booz & Co., che è uno dei principali supporter del programma Fulbright BEST. A questi si aggiungeranno, per ciascuna tappa, importanti soggetti istituzionali locali (quali BAIA, il Consolato Italiano, l’ICE, solo per citarne alcuni).

Il fatto che tutti questi attori abbiano scelto di mettersi insieme è già di per sè un segnale forte da parte di un paese ove spesso la capacità di fare fronte comune soccombe di fronte agli interessi locali o di singole parti.

Oggi l’Italian Innovation Day rappresenta una “piattaforma” innovativa che nel tempo è destinata a crescere ed evolvere. Tra dieci giorni, il 31 marzo, a Stanford, andrà in onda la prima edizione, con in programma un twin-event il mese successivo (il 5 maggio per la precisione) a New York.

Di cosa si tratta? Un evento di mezza giornata composto di 2 momenti principali: una conferenza e uno showcase di innovazione di matrice italiana (dettagli qui).
Significativa sara’ l’apertura di questi eventi in cui verra’ presentato un white paper scritto da Richard Vietor della rinomata Harvard Business School insieme ad  Alberto Onetti  e Fernando Napolitano sul tema: “Why Italy matters to the word?“. Un quadro macro- e micro-economico che  ci aiuterà a capire se l’Italia può rappresentare una area capace di attirare investimenti dall’estero.

All’evento di Stanford ci sara’ anche un super panel dal titolo: “Does Silicon Valley still matter?.  A parlarne, moderati da Fabrizio Capobianco (fondatore di Funambol), tre investitori che hanno fatto la storia della Silicon Valley investendo in alcune delle aziende tecnologiche più famose al mondo: Tim Draper di DFJ (tra le sue perle si trovano Skype, Hotmail, Baidu,Overture, etc), Scott Sandell di NEA (Salesforce,WebEx, NetIQ, etc) e Jeff Clavier di Softtech (Mint, Eventbrite, Milo,Ustream, etc).
Saranno proprio loro a valutare le startup italiane selezionate (e adeguatamente formate) per l’occasione.

A presentare le piccole medie imprese invitate sara’ un Comitato Scientifico composto da italiani che hanno scritto capitoli fondamendali della storia  della Silicon Valley: Alberto Sangiovanni Vincentelli, Roberto Crea, Giacomo Marini, Federico Faggin, Pierluigi Zappacosta, veri portabandiera in Silicon Valley del meglio dell’innovazione Made in Italy. Chi meglio di loro può introdurle agli investitori americani?

In questo momento di rinnovata unita’ nazionale (mai visti tanti tricolori al di fuori dei mondiali di calcio!) scalda il cuore e da’ speranza poter fare gruppo intorno alla bandiera dell’innovazione.

E perche’ non farne una festa nazionale?

Inizio l’anno riprendendo uno spunto che mi viene da una serie di mail di Paolo Todeschini, un fedele lettore di questo blog. Paolo si interroga come mai “la presenza imprenditoriale italiana, nonostante  sulla West Coast e nella Bay Area in modo particolare sia così vivace (tanto da aver dato vita a progetti come BAIA, Mind the Bridge e SVIEC), non si traduca in iniziative istituzionali a favore dei ricercatori italiani, cosa che invece sembra avvenire sull’altra costa?
Paolo richiama gli esempi dell’Italian Academy presso la Columbia University, della Casa Italiana Zerilli-Marimò presso la New York University, della Giovanni
Armenise-Harvard Foundation
presso la School of Medicine della Harvard Univesity, delle Giorgio Ruffolo ed Empedocle Maffia Fellowships, sempre ad Harvard, ma questa volta presso
la Kennedy School of Government, e del MIT-Italy Program, dal quale sono nati il Progetto
Rocca
con il Politecnico di Milano ed il Mitor Project con il
Politecnico Torino.
La sollecitazione di Paolo Todeschini  è che i numerosi imprenditori e venture capitalist italiani o italo-americani che lavorano in Silicon Valley uniscano le proprie forze per dar vita ad una fondazione che incentivi la mobilità dei ricercatori italiani con le università presenti in Silicon Valley. Un possibile modello potrebbe essere il Kennedy Memorial Trust, un fondo promosso dalle istituzioni (pubbliche e private) britanniche che elargisce borse di studio a favore di studenti britannici per permettere loro di svolgere gli studi post-graduate presso Harvard ed MIT.
Il tema è interessante. Attendiamo contributi di riflessione o integrazioni di informazione.

A New York ho avuto l’occasione di incontrare Yao-Hui Huang,l’anima che sta dietro a TheHatchery, una società della Grande Mela che fa incubazione einvestimenti in startup. The Hatchery organizza tantissime iniziativeper le aziende nelle prime fasi del ciclo di vita in cerca di capitali. Tra queste forse il più celebre è Hatch Match, unaevento volto a fare incontrare imprenditori ed investitori, in una sortadi speed dating. Ne discutiamo con Yao.

yao.jpgYao, quale è l’obiettivo di Hatch Match?
L’idea di fondo è dare l’opportunità a giovani imprenditori alle prime fasi del ciclo di vita di parlare con investitori e ricevere un feedback sulle proprie idee. Per un neo-imprenditore è difficile entrare in contatto con la community degli investitori, da un lato, perchè di solito non ha contatti e, dall’altro, perchè le porte degli investitori  restano spesso chiuse per neo-imprenditori  non introdotti da altri e con idee troppo verdi e ancora in fase embrionale.
E come Hatch Match risolve questo problema?
Hatch Match concentra in 3 ore nella stessa sala gli investitori da un lato (quelli specializzati sul seed investment e sulle aziende early stage) e, dall’altro, gli imprenditori.
Come vengono organizzati gli incontri?
Si inizia alle 5 del pomeriggio. Gli imprenditori arrivano e si registrano per massimo due incontri con gli investitori. Hanno a disposizione la lista degli investitori con la descrizione delle caratteristiche di ciascuno (profilo degli investimenti, settori di specializzazione, portafoglio di imprese in cui hanno investito, …).
Quindi non incontri “al buio”?
Per le imprese teoricamente no. Hanno due pallottole da sparare e devono cercare il “perfect matching”. Se sei una azienda web based dovrai cercare di fissare degli incontri con investitori che sono specializzati su quelle tecnologie, magari cercando di evitare quelli che in portafoglio hanno già tuoi potenziali concorrenti.
Come gestite eventuali conflitti, come ad esempio nel caso più imprese vogliano incontrare lo stesso investitore?
First come, first served”. Le imprese arrivano anche un’ora prima dell’inizio per potere essere tra i primi a scegliere.
E quanto durano questi incontri?
Speed dating, 5 minuti ciascuno. D’altronde dobbiamo fare incontrare 400 imprese con 30 investitori in meno di 3 ore, registrazione compresa. E come ho detto prima, gli investitori non sono disponibili a investire troppo tempo. “The trick of the event is timing”. In questa capacità di compattare tutto in tempi brevi sta il successo di Hatch Match.
E capita che scocchi la “scintilla”?
Spesso sì. In ogni caso resta  una grande occasione di apprendimento (per una azienda alle prime armi è utilissimo avere la possibilità di incontrare due investitori e ricevere il loro “honest feedback”) e di networking: mentre le aziende sono in attesa del proprio turno, hanno l’occasione di entrare in contatto con tutte le altre. Condividono esperienze, si scambiano consigli, contatti, si creano spesso occasioni di business.
Quindi possiamo dire che il vero risultato di Hatch Match è fare networking?
Sì, New York (ma questo vale anche per altri posti) non è molto open. Noi apriamo contatti e porte, aiutiamo a creare la community. Sta poi agli imprenditori cogliere le occasioni.
Hatch Match è aperto anche ad imprese estere ed italiane?
Certo, con la consapevolezza che per essere interessanti per un investitore early stage newyorkese bisogna trasferirsi qua, anche se non con tutta l’azienda. Lo sviluppo del prodotto può rimanere in Italia, ma chi fa la strategia dell’impresa  deve stare vicino agli investitori (ciò non vale ovviamente per la sola New york, ma è un principiogenerale).

Una esperienza molto interessante da valutare ed approfondire, un modo di “teaching openess by doing it“.

 

Questa settimana ho avuto la conferma di quanto le politiche industriali e di incentivazione siano importanti.  L’occasione è stata il Gran Finale di Mind the Bridge che, dopo il successo dell’evento di Stanford del 18 marzo, il Consolato Italiano e l’ICE ci hanno richiesto di replicare a New York (rimando all’articolo di Massimo Gaggi sul Corriere di oggi per i commenti).
Nella Grande Mela ho trovato un ecosistema imprenditoriale in grandissimo fermento: una comunità di venture capital e seed investors ampia e proattiva (più o meno ogni giorno ci sono incontri di presentazione e networking per startup, quali il mitico “Hatch Match“, una sorta di speed dating per imprenditori e investitori), un sistema universitario strettamente collegato al mondo dell’impresa e fortemente orientato a lanciare spin-off (Columbia University ha avviato un sistema di tech transfer che è stato capace di generare, dagli anni Novanta ad oggi, quasi 100 spin-off, 600 patents e 250 licensing agreement, con ritorni per l’università nell’ordine dei 2 miliardi di  dollari), molte molte start-up su settori innovativi ed incubatori che, in breve tempo, sono stati capaci di integrarsi nel sistema e sul territorio (l’ERSP – East River Science Park che in breve tempo si sta affermando come uno dei più rilevanti cluster biotech statunitensi).
Un universo imprenditoriale che vent’anni fa non c’era, risultato degli sforzi progettuali di una città e di uno stato che sono stati capaci di reinventarsi attraverso politiche industriali focalizzate (internet e media, life science, entertainment,…) e sistemi di incentivi ed agevolazioni mirate (si pensi al programma “Made in NYC” che, tra le altre cose, in pochi anni ha fatto della Grande Mela un polo dell’industria cinematografica).
Un eco-sistema che sta funzionando molto bene e che porterà questa zona a diventare un centro di riferimento per l’innovazione e le nuove tecnologie. Per completare il passaggio da Silicon Alley a Silicon Valley mancano ancora i grandi leviathans, ossia grandi imprese operanti nelle nuove tecnologie (alla Google per intenderci).
Ma di questo passo possiamo scomettere che arriveranno presto. D’altronde “patience is not a virtue here” si dice a New York.