Categoria "Crisi"

La settimana scorsa avevo pubblicato le mie riflessioni a valle degli Stati Generali sulle startup in Italia che si sono tenuti a Roma in occasione dello Startup Day organizzato dall’AGI.

Ne è derivata una discussione tanto ampia quanto interessante che tuttavia non traspare dalla sezione commenti del Corriere (che difatti è praticamente deserta, anche perché oggettivamente inutilizzabile – riporto in calce (*) uno dei tanti “pareri” al riguardo).

Il dibattito avviene in rete e non sui media tradizionali. Il che – di per sé – è un chiaro segnale della distanza tra questi mondi. Distanza che rende il mondo delle startup ancora per larghi tratti autoreferenziale. E inascoltato.

Per questo credo sia utile riportare qui parte delle riflessioni, per tenere il canale di comunicazione aperto con il resto del mondo, che resta rilevante ed essenziale.

Tra i diversi commenti ricevuti, riprendo quanto ha detto Mauro del Rio, fondatore di Buongiorno, una delle figure storiche dell’ecosistema italiano.

Mauro scrive:

Condivido. In sintesi:

  • per fare partire il settore servono investimenti dimensionalmente paragonabili a quelli di altri mercati, quindi due ordini di grandezza superiori ad oggi;
  • gli investimenti in startup in Italia non ritornano: per questo, e non per ragioni “sbagliate”, ci sono pochissimi investimenti privati;
  • quindi gli investimenti non possono che essere pubblici;
  • meglio se espliciti (quindi trasparenti) piuttosto che impliciti attraverso agevolazioni/tax exemption/etc. (complicati, poco trasparenti)
  • nel momento in cui come industry del venture capital chiediamo importanti investimenti pubblici, non possiamo pensare di beneficiarne direttamente a prescindere dai risultati. Quindi le fee di gestione su investimenti pubblici vanno drasticamente abbattute o azzerate (oggi sono il 2/2,5% all’anno, che sulla vita tipica di un fondo equivalgono al 20-25% del capitale messo a disposizione, valori inaccettabili per un investimento pubblico).

Che succeda tutto questo mi sembra poco probabile. Quindi tra le due ipotesi dell’articolo di Alberto (“ora o mai più”) ahimè propendo per la seconda

Mauro Del Rio

Continuiamo la discussione, anche qui. Perché il mondo delle startup serve all’Italia e al suo futuro e non può essere una nicchia separata dal resto del paese.

(*) Sotto uno dei tanti commenti provenienti dalla rete sulla utilizzabilità del blog su cui scrivo:

P.S. Alberto Onetti il sito del Corriere della Sera è scandaloso. Ero sul tuo post e continuava ad andare sulla home poi ritornava sul tuo post…avanti e indietro…mille volte…. Scrivi pure su Medium e tagga le persone chissà magari rendiamo il tutto un po’ più interattivo e forward looking

Ieri a Roma in occasione dello Startup Day organizzato dall’AGI abbiamo presentato i dati sull’Italia delle scaleup, ossia sui risultati visibili (leggasi imprese) che ad oggi l’ecosistema delle startup è stato in grado di produrre.

I dati prodotti nell’ambito di Startup Europe Partnership restituiscono una immagine impietosa del Bel Paese, che mostra un ritardo temo incolmabile nei confronti dei principali paesi europei e che è a rischio di sorpasso anche da parte di paesi più piccoli e con minore tradizione industriale del nostro. Corriamo un chiaro rischio di fuga degli imprenditori e delle startup, dopo aver subito per anni quella dei cervelli.

Vi lascio l’approfondimento dei dati e mi concentro su quanto emerso dal dibattito, moderato da Riccardo Luna, che ha seguito la presentazione del rapporto.

Al Tempio Adriano a Roma c’erano difatti tanti protagonisti di questo sistema startup, tanti amici e compagni di tante battaglie nel nome delle startup.

Tutti, come il sottoscritto, in qualche misura tanto frustrati quanto corresponsabili di questo fallimento.

Sì, come ha ben detto Massimiliano Magrini, non è stata una riunione sindacale del movimento startup perché non avrebbe avuto senso.

È stata una analisi collettiva di quanto di giusto non è stato fatto e di quanto si potrebbe ancora fare per far decollare un aereo affossato sulla pista.

È stato il riconoscimento del fallimento di anni di duro lavoro.

Fallimento nel non essere riusciti a spiegare, come ha ammesso Marco Bicocchi Pichi, che le startup non sono importanti per se stesse, ma per il paese.

E la prova di ciò è stata che il mondo della politica, invitato a questo incontro, era largamente assente.

Sorge il dubbio che tale assenza certifichi, come ha sottolineato Fausto Boni, l’evidente disinteresse del mondo della politica nei confronti di startup e innovazione. Probabile.

La realtà, meno digeribile da un mondo che ha costruito il proprio manifesto nella capacità di “pitchare” in modo chiaro cosa si vuole fare, è  la nostra incapacità di comunicare alla gente perché le startup sono importanti e a cosa servano. “Se manca una domanda dal paese per le startup, manca la sanzione politica per chi non se ne occupa”, ha detto, senza diplomazia, Antonio Palmieri – “E perché quindi sorprendersi se il mondo della politica non se ne occupa? Fate sentire la vostra voce in modo chiaro, se volete avere una opportunità che qualcuno vi ascolti”. Touché.

Che serve allora?

Una cosa: capitali dal pubblico. Qualche miliardo, come ha proposto Salvo Mizzi, non spiccioli. In questi anni abbiamo migliorato la cornice regolamentare ma manca il quadro. Non si può pensare di giocare con i bastoncini dello Shangai quando gli altri muovono una clave. E non c’è da vergognarsi nel chiederli, ha detto Mauro Del Rio.  Soldi sì, “ma non investiti a pioggia in una logica simil-democristiana, soldi puntati su pochi cavalli vincenti”, ha chiesto Davide Dattoli. Soldi da cui tutti quelli intorno al tavolo non devono trarre benefici. Chiedere investimenti pubblici e farsi pagare management fee per investirli o caricare fee per servizi è semplicemente non corretto e distrugge la fiducia, che è l’altro pezzo che è probabilmente venuto a mancare nel nostro ecosistema, come ha ricordato Gianluca Dettori. E la cosa suona strana visto che il mercato delle startup è costruito sulla fiducia.

Quindi ora o mai più. Perché il tempo, più che i capitali, è la vera risorsa scarsa. Solo così startup e innovazione da emergenza nazionale possono diventare una opportunità nazionale, come ha ricordato Marco Gay.

Altrimenti resteranno solo le buone intenzioni in un paese avviato sulla strada del declino.

Ho impiegato due giorni a riprendermi dall’incubo da cui mi sono risvegliato venerdì mattina. Un incubo chiamato Brexit. Il Regno Unito ha deciso di uscire dall’Unione Europea.

E ora che succede?

La risposta, l’unica risposta onesta, è: non so. Non essendoci precedenti, ogni scenario ed ipotesi sono pura “fiction“.

Di certo, si prospetta un periodo piuttosto lungo di grande incertezza che, per sua natura, è avversa alla crescita. Merce non molto abbondante dalle nostre parti e di cui abbiamo un grande bisogno.

Incertezza condita da una grande amarezza per un risultato che comunque letto è una sconfitta. Non si può valutare quello che è successo giovedì come un passo avanti. Tutte le volte che le ragioni per separarsi prevalgono sui motivi per stare insieme è una sconfitta. Per tutti. Incredibile vedere qualcuno festeggiare.

Non si possono neanche però ignorare le cause che hanno portato a questa decisione. Una profonda insoddisfazione nei confronti di una costruzione europea che nel tempo ha perso di rappresentatività e ha mancato nel dare risposte. Una costruzione europea che va ripensata se si vuole muovere un passo avanti ed evitare che le voci del no si sollevino altrove.

Da ultimo, uno sguardo al voto. Se si guarda a chi ha votato per il “leave” la parte dominate e determinante sono gli ultra sessantaenni, mentre i giovani (la generazione che ha vissuto l’Europa attraverso l’Erasmus, di gran lunga l’iniziativa europeista più lungimirante che sia mai stata attuata) non hanno avuto dubbi sul da farsi.

Il dubbio se sia corretto che il futuro di un paese sia determinato da chi lo vivrà solo per una minima parte rimane.

 

Vedremo. Vedremo anche come reagirà l’ecosistema delle startup che nel Regno Unito (rectius a Londra) aveva messo la sua capitale europea. Si sa. Le startup non hanno radici profonde e tendono a muoversi qualora le condizioni non siano più favorevoli o trovino situazioni migliori altrove. Vedremo che succederà.

La prima sensazione è che, comunque vada, sarà un gioco a somma minore di zero.

 

Il nuovo e il diverso spaventa. Il cambiamento spaventa.

L’imprenditorialità ci insegna a vedere il cambiamento come una incredibile opportunità.  E quindi a reagirvi in modo positivo e proattivo.

Non ho titolo per esprimere pareri qualificati di fronte alla tragedia immane dei migranti che si sta consumando alle porte dell’Europa. Mi limito a riportare dei dati ripresi da un rapporto di Kleiner Perkins Caufield & Byers (una delle prime società di venture capital della Silicon Valley) che mostra il ruolo che gli immigrati hanno giocato nella creazione dei giganti high-tech americani.

Il 60%  delle top 25 tech company (per capitalizzazione di borsa) ha tra i suoi fondatori immigrati, di prima o seconda generazione.

Tra queste le prime tre: Apple dal figlio di un siriano, Google da un immigrato russo (Sergey Brin), la stessa IBM da Herman Hollerith, tedesco di seconda generazione.

Messi insieme fanno 1,600 miliardi di dollari di valore, ma soprattutto oltre 500 miliardi di dollari di fatturato e quasi 1,2 milioni di posti di lavoro. Non male.

Volete avere crescita ed innovazione? “Welcome immigrants“. Lo dice E.J. Reedy, Director of Research and Policy della Kauffman Foundation (qui l’articolo in cui ne avevamo parlato). Lo dicono i numeri (e non solo).

 

Ho ricevuto ieri una mail da un ragazzo di 23 anni: italiano, cresciuto a Mosca, laureato in Italia, oggi lavora a Londra. Una storia di un potenziale talento cui non abbiamo (almeno per ora) dato la possibilità di mettere a frutto le sue doti nel nostro paese. Che è finito a Londra, come molti altri (la capitale inglese è la prima meta dei nostri migranti, secondo uno studio della Fondazione Migrantes presentato ieri: sono quasi tredicimila i nuovi residenti di nazionalità italiana arrivati nel Regno Unito nel 2014).

Non pubblico il suo nome perchè, più della sua identità, è rilevante la sua storia. E soprattutto sono rilevanti le domande che mi (e si e ci) pone. E’ possibile per l’Italia tornare ad essere un centro di attrazione di talenti? O resta solo la via dell’emigrazione?

Il Primo Ministro Renzi a San Francisco ci ha detto: “Non vi chiedo di tornare perchè cervelli in fuga. Vi chiedo di restare e di fare grande l’Italia nel mondo”. Concordo. Un Italiano grande all’estero è meglio di un Italiano piccolo in Patria.

Però resta un grande (e non differibile) problema: creare le condizioni perchè l’Italia torni ad essere un treno capace di correre e riempirsi di passeggeri (italiani e non) di talento.

Oggi l’Italia resta una littorina che procede a fatica, affollata di passeggeri che si lamentano con il conducente e con il “sistema” ferroviario in genere.

Urge un cambio di passo per cambiare il sistema. Da parte sia del conducente, ma anche dei passeggeri. Perchè, come ha detto (giustamente) Sergio Marchionne ieri sera a Roma, il futuro non è responsabilità solo dei governi, ma anche delle persone.

Ciascuno deve fare la sua parte se vogliamo provare a dare delle risposte concrete alle domande (legittime) di un ragazzo italiano di 23 anni che (tutti noi) abbiamo contribuito a mettere in fuga.

Di seguito la sua lettera, di cui raccomando la lettura.

“Caro Professore Onetti
io sono un giovane di 23 anni e lavoro all’estero da oltre due anni (prima a Mosca, oggi a Londra), con una grande banca internazionale (Morgan Stanley). Io sono stato fortunato ad avere la possibilita’ di crescere e studiare in parte all’estero, per poi rientrare in Italia – per mia scelta! – per frequentare l’Universita’ Bocconi di Milano.

Ed è a questo punto che mi sono trovato davanti una realtà inattesa, di fronte alla quale ho ripreso – ben volentieri – le valigie (senza alcuna intenzione di ritentare un rientro, almeno per molto tempo).

Scrivo quindi della mia esperienza, che credo faccia capire quanto insostenibile sia la situazione italiana. Disponetene come meglio credete.

Nel 2012 ho concluso una carriera scolastica fuori dall’ordinario (frutto di tanto impegno, un po’ di intelligenza e un po’ di fortuna. Non mi considero nè un’eccellenza nè un’eccezione: ho ancora tanta strada da fare….), sintetizzabile così:
– International Baccalaureate alla Anglo American School di Mosca nel 2008 (a 16 anni e 9 mesi). Nota: mi ero trasferito a Mosca nel 2002 con la famiglia, per il lavoro di mio padre.
– Bachelor in Economics & Management alla Bocconi nel 2011 (con scambio di 5 mesi alla Hong Kong University), full Merit Scholarship per tutti i tre anni di corso, laurea con 110 e lode (all’età di 19 anni e 10 mesi).
– Master in Finance & Private Equity nel 2012 alla LSE London School of Economics con “distinction” e primo premio Antoine Faure-Grimaud come miglior studente del corso, conseguito a Luglio 2012.

Nell’agosto 2012 ho cominciato a lavorare a Mosca a Morgan Stanley come Equity Analyst, dove sono rimasto sino alla fine di agosto 2014. Dalll’inizio di Settembre mi sono trasferito a Londra, dove sono stato promosso Equity Associate, responsabile per il mercato russo nel settore “Metals & Mining”.

Da poco ho compiuto 23 anni: elementari in 4 anni + medie in tre anni + superiori in 4 anni + laurea triennale alla Bocconi + Master of Science alla LSE.

Fin qui la questione resta comunque privata: dove diventa di interesse pubblico e sociale? Nonostante le buone credenziali, nel periodo 2008/2011 (in cui ho vissuto e studiato in Italia) non ho MAI ricevuto UN SOLO CENNO DI INTERESSE da controparti italiane, mentre sin dall’inizio del 2010 (quando ancora avevo 18 anni ed ero al secondo anno in Bocconi) ho cominciato ad essere corteggiato da molte organizzazioni straniere
quali Goldman Sachs, Morgan Stanley, JP Morgan, Deutsche Bank e altre, in totale assenza di quelle italiane (notare che varie grandi aziende italiane sono finanziatrici di Bocconi…. quindi pagano per formare cervelli e poi li “regalano” agli stranieri).

Di fatto, nell’estate del 2010 Morgan Stanley mi ha assunto per uno stage di 10 settimane a Londra, vero e retribuito (con 8.500 sterline + costo appartamento + viaggi aerei), mi ha assunto al termine dello stage, mi ha conservato il posto per due anni e mi ha anche dato una borsa di studio di 5.000 sterline per essermi iscritto al corso di Master of Science alla LSE! All’assunzione mi è stato offerto di scegliere fra Londra e Mosca, con un contratto iniziale che in Italia è quasi impensabile anche per un giovane dirigente!

Allora le domande che sorgono sono:

  • Si fa tanto parlare di fuga di cervelli, ma le aziende/istituzioni italiane cosa offrono VERAMENTE per trattenerli?
  • Siamo sicuri di avere strumenti ed aziende in grado di battere la concorrenza estera?
  • E’ realisticamente possibile creare – in tempi brevi – condizioni favorevoli per consentire alla futura classe dirigenziale di tornare, realizzare il proprio futuro in Italia e contribuire alla sua rinascita?
  • Oppure resta SOLO la via dell’emigrazione, con buona pace delle velleitarie riforme di cui tanti si riempiono la bocca?”

 

XY, 23 anni
Londra, 7 ottobre 2014

Sono stato invitato anche quest’anno a parlare al Meeting di Rimini. Mi è stato chiesto come vedo, dall’osservatorio della Silicon Valley, l’Italia e le imprese del nostro paese.

Il mio pensiero in estrema sintesi (sotto il video dell’intervento) è il seguente.

Oggi per le imprese la grande sfida è non essere travolte dai fortissimi cambiamenti che stanno accadendo sia sul fronte tecnologico che di mercato. Stiamo veramente vivendo una rivoluzione dei paradigmi competitivi, con tassi di cambiamento fortissimi e rapidissimi. Molte imprese non se ne rendono conto, si muovono come criceti in gabbia che continuano a fare girare la loro ruota, sempre più lentamente, invece di guardare fuori e vedere se ci sono delle ruote più grandi e diverse su cui potrebbero mettere a frutto le proprie energie e competenze.

Abbiamo preparato per loro un programma  a San Francisco di una settimana per aiutarle a guardare a quello che succede fuori da questa metaforica gabbia. L’obiezione che mi fanno di solito è che non riescono a staccare per una settimana dal business. La risposta che do loro è che, se non riescono a trovare una settimana del loro tempo da investire per programmare il proprio futuro, è difficile che abbiano un futuro molto luminoso davanti.

Immagine anteprima YouTube

 

 

La rivoluzione imprenditoriale (“a real resurgence of entrepreneurial spirit“) è il tratto caratterizzante questo momento storico: così si esprime Martin Zwilling nel suo articolo di fine anno su Forbes. Certo, gran parte di questo fermento imprenditoriale è imputabile alla crisi (una sorta di “imprenditorialità necessitata“), ma, citando Albert Einstein (ripreso nel suo messaggio di auguri da Francesco Inguscio): “La crisi è la più grande benedizione per le persone e le nazioni perché la crisi porta progressi“.

Al di là delle opinioni, restano i numeri: se guardiamo al Kaufman Index of Entrepreneurial Activity (KIEA), il tasso di imprenditorialità è, da qualche anno, stabilmente sopra i valori del periodo della dot.com bubble: negli Stati Uniti ci sono 300 nuovi imprenditori ogni 100,000 abitanti adulti (erano 270 nel biennio d’oro 1999-2000).

Uno sguardo ai dati (la base di analisi è gli Stati Uniti) permette di comprendere meglio i tratti di questa nuova ondata imprenditoriale.

1) Spazio alle donne. Il 40% delle nuove attività imprenditoriali sono originate da donne. Non si vedono sensibili tassi di crescita, anche se un recente sondaggio di The Telegraph segnala come oggi il 20% delle giovani donne oggi aspiri a diventare imprenditori (contro il 15% di soli cinque anni fa).

2) Il contributo degli immigrati. Gli immigrants generano il 27% delle attività imprenditoriali complessive, ma sono la forza dominante nella creazione di nuove imprese.

3) Imprenditori a tutte le età. I dati sembrano mostrare una distribuzione quasi uniforme degli imprenditori tra i diversi gruppi di età (26% sono tra 20-34 anni, 24% nella fascia 35-44, 26% in quella 45-54 e 23% tra 55-64). Il tutto quasi a testimoniare che il fattore demografico non precluda la partecipazione a questa corsa al fare impresa. Paradossalmente i Baby Boomer (fascia 55-64) sembrano avere una maggiore dinamicità, con tassi di crescita superiori a quelli dei giovanissimi della Gen-Y.

Dove porterà questa ondata? Ce lo dirà il futuro. Di certo, dove c’è tensione imprenditoriale, c’è speranza. Buon 2014.

Sono, dal minuto zero, un profondo sostenitore dell’importanza delle startup per il futuro dell’Italia (questo blog è stato lanciato nel 2009, quando le persone che parlavano di startup in Italia si contavano sulle dita di una mano).

Sono, a dire il vero, anche spesso critico sull’enfasi eccessiva che si sta dando, da più parti, al fenomeno startup (abbiamo segnalato, in tempi non sospetti e un po’ controcorrente, il rischio di una bolla mediatica intorno a questo tema, qui il link ad un precedente articolo).

E la bolla mediatica credo stia scoppiando e, nella approssimazione propria di chi guarda superficialmente i fenomeni, porti a categorizzare le startup non come una nuova (per quanto debole) generazione di imprenditori, ma come una categoria da contrapporre (in termini negativi) alle categorie esistenti. Categorie che, in molti casi, purtroppo stanno vivendo problemi. Come se le startup ne fossero la causa.

Un esempio sono le parole di Aldo Bonomi in una intervista pubblicata su L’Huffington Post questa settimana. Bonomi così commenta il tema delle proteste del movimento dei Forconi: “Invece di cominciare con le solite manfrine la politica dovrebbe mettere in agenda la soluzione dei problemi (…) non è possibile occuparsi soltanto dell’economia del “non ancora” – start up e così via – senza risolvere il problema del “non è più””.

Non comprendo sinceramente l’accostamento.

Il problema vero dell’Italia è che non ci siamo occupati – per oltre trent’anni – dell’economia del “non ancora”  … e così abbiamo perso la capacità di innovare il nostro tessuto produttivo. E – senza innovazione – l’economia dell'”oggi” è diventata l’economia del “non è più”.

Se la politica avesse guardato avanti negli ultimi venti/trenta anni, oggi non avremmo così tante persone che rimangono indietro e che hanno dei problemi cui senza dubbio bisogna dare soluzione.

Ma senza creare mediaticamente inutili contrapposizioni con chi sta provando a fare impresa che va solo elogiato e incoraggiato. Perché, se non torniamo ad innovare e crescere, l’unico risultato che avremo  è che la dimensione dei problemi da affrontare sarà solo più grande. Le startup non c’entrano.

L’auspicio è quindi che la politica si concentri, senza indugi e in modo concreto, sulla economia del “non ancora”  e trovi soluzioni ai  problemi dell’economia del “non è più”.

PS: Domenica sera sono stato invitato ad intervenire nella trasmissione “Presi per il Web” su Radio Radicale (19.30-20.30). Titolo della puntata: “Startup? Sempre meglio che lavorare”. CVD, come si diceva al liceo : )

4 DICEMBRE 2013 | di

Uno dei passaggi chiave nel modello d’impresa americano è quello che prevede che i founders progressivamente si facciano da parte (“step aside” viene chiamato) per lasciare il posto a manager professionali. Il principio alla base di questa decisione è che il contributo dei creatori dell’azienda sia prevalentemente di tipo imprenditoriale (nella creazione e nel lancio dell’impresa), mentre la crescita dell’impresa richieda competenze specialistiche, tecniche. Inoltre un founder che si fa da parte una volta avviata e lanciata la propria impresa può tornare a fare quello per cui è più portato, ossia avviare un nuovo progetto di impresa (si parla di “serial entreprenuers“, ossia imprenditorialità seriale), rimettendo così in moto la ruota dell’innovazione.

Qundi, in uno slogan: l’imprenditore ha talento per avviare le imprese, il manager ha le capacità per gestirle e farle crescere. Ciascun si focalizzi su quello che è bravo a fare. “O félé Ofelè fa el to mesté”, per (una volta tanto) abbandonare l’inglese.

Un articolo sul Financial Times sembra mettere in dubbio il modello, visto che segnala tanti casi di “creators’ comebacks“.

Casi recenti sono il ritorno di Stan Shih alla guida (o al capezzale) di Acer, ben nove anni dopo il suo ritiro dalle scene, e quello di Narayana Murty in Infosys. Ritorni che portano alla memoria quelli di Steve Jobs in Apple e di Howard Shultz in Starbucks.

Ritorni che, di solito, si associano a situazioni di difficoltà (Acer è in perdita dal 2011, in una crisi profonda dettata dal crollo delle vendite dei pc a seguito della diffusione dei tablets). Difficoltà che richiedono un ritorno all’innovazione e una nuova iniezione di imprenditorialità. Cosa che non sempre il ritorno dei fondatori garantisce. Il problema di fondo è la capacità dell’azienda di continuare ad innovare. E, come abbiamo discusso in altre occasioni, questa spesso si perde cammin facendo e con essa i successi fin a quel momento accumulati.

C’è bisogno di re-innestare lo spirito imprenditoriale dentro le aziende affermate: è quanto viene definito  Intrapreneurship, cui come Mind the Bridge abbiamo dedicato dal prossimo anno un programma  specifico.

 

Tra i dati presentati questa settimana da Unioncamere, che hanno dato la fotografia dell’imprenditoria italiana nei primi nove mesi del 2013, uno in particolare è stato salutato con entusiasmo.  Delle quasi 300mila imprese nate fino al 30 settembre, il 34% hanno alla guida uno o più giovani under 35. Il dato è interessante anche se il commento del Presidente Ferruccio Dardanello “c’è una generazione di giovani che non si arrende al vento della protesta e non si rassegna a lasciare l’Italia per costruirsi un futuro, ma si rimbocca le maniche e guarda con coraggio al domani” sembra forse eccessivamente improntato all’ottimismo (in contrasto peraltro con la lucida analisi di Beppe Severgnini sul The New York Times in cui descrive “a nation on the run“). Mi ricorda l’ottimismo che trapela quando si commentano i dati sulle startup.

Il fatto che nel  77% si tratti di imprese individuali (insieme al dato sul boom delle partite IVA) fa pensare che queste nuove imprese siano più forme di parcheggio di persone che faticano a trovare assunzione piuttosto che solidi progetti imprenditoriali in fase di avvio. Inoltre il saldo tra aperture e chiusure di imprese (+13 mila unità) è il più basso della serie degli ultimi dieci anni. Quindi la realtà è che in Italia stentiamo a sostituire le realtà produttive esistenti che chiudono e lo facciamo con forme di impresa fragili (micro-imprese individuali, ossia proto-imprese).

Tuttavia, lanciato l’allarme, vediamo il positivo: c’è una nuova generazione di Italiani che si sta cimentando con il fare impresa. Una generazione distribuita (forse per la prima volta nella nostra storia) in modo uniforme su tutto il paese (il 39% delle nuove imprese giovanili sono nate nel Sud). La nuova Italia sta nascendo, tra mille difficoltà. Non sarà una passeggiata nel parco, ma da qualche parte bisogna pure iniziare.