Categoria "Communication"

Io vivo a Pavia (quando non sono in transito). Ricordo che una mattina di qualche anno fa, finita la mia partita di tennis delle 7.30, mi ero fermato a fare colazione in un locale appena aperto, “Miccone”, in Borgo Ticino. “Ma lei è Alberto Onetti di Mind the Bridge?”. Questa è la domanda che mi ha fatto la persona dietro al banco mentre stavo ordinando un cappuccino. Disclaimer: non mi capita spesso e difatti mi ricordo l’episodio.

La persona dall’altra parte del banco era Giuseppe Dabbene, un ragazzo allora venticinquenne, che nel tempo ho seguito nelle sue vicende imprenditoriali che lo hanno portato dalla nebbiosa Pavia alla parimenti nebbiosa Londra dove si trova  tuttora.

Credo che sia interessante raccontare la storia di Giuseppe perché riassume bene lo spirito di chi è imprenditore, ossia di chi vive in una tensione continua tra il pensare in grande e la complessità della realizzazione dei propri progetti.

Giuseppe, cosa è il Miccone e come è nata questa avventura imprenditoriale?
Tutto è nato nel novembre 2013 quando io e la mia famiglia avevamo capito che il mondo del food in Italia stava cambiando e si stava sempre più ammodernando e specializzando.  La mia famiglia proveniva dal mondo del commercio italiano dal 1977, quel commercio fatto di gestione familiare che non rispecchiava le logiche aziendali moderne. Da quando ho iniziato questo cambiamento ho capito che bisognava circondarsi di esperti del settore food e costruire un team che creasse non un semplice locale, ma un vero e proprio brand.
Abbiamo quindi studiato la tradizione enogastronomica pavese e abbiamo capito che il Miccone rappresentava un simbolo per questo territorio. Il Miccone è infatti il pane della tradizione della provincia di Pavia. Abbiamo fatto sì che il Miccone fosse il core-business del progetto, attorno ad esso infatti abbiamo strutturato tutto il menù e l’offerta che proponiamo durante tutto l’arco della giornata.
Il Miccone viene tagliato in fette e da queste fette nascono i nostri “Micconi”, panini creati utilizzando per il 90% ingredienti del territorio come ad esempio salumi, formaggi e confetture tipiche, ma anche ingredienti che rispecchiano i trend del momento come ad esempio l’avocado, sempre abbinato a prodotti locali. Oltre che per gli ingredienti utilizzati, i “Micconi” sono particolari perché la fetta di pane Miccone viene piegata e da questa piega nasce il nostro logo ed il nostro motto “La piega di pane pavese”. I nostri Micconi vengono serviti con vino e birra artigianale dell’Oltrepò pavese.
All’interno del format Miccone troviamo anche la caffetteria che rispecchia la metodologia e le tecniche SCAA di specialty coffee. Tostiamo direttamente il caffè all’interno del negozio. Creiamo espressi e cappuccini che abbiniamo con la torta di pane fatta con il Miccone oppure utilizzando fette di Miccone insieme alle marmellate locali.
Tutto il format è stato creato per essere replicabile e scalabile, infatti tutto il menù è ingegnerizzato e rispecchia le logiche del food cost. Il controllo di gestione è inoltre affidato a un sistema di cassa dove 24h su 24h possiamo monitorare le performance del locale.

Miccone London

Come sono andati questi 3 anni a Pavia?
Fin dal primo giorno di apertura, il 5 Settembre 2014, l’attività è andata molto bene. In 3 anni abbiamo fatturato  oltre €650.000 e nell’ultimo anno abbiamo fatturato €50.000 in più rispetto al 2016. Considerando il mercato pavese di 70.000 abitanti, il cui 50% circa è sopra i 60 anni di età, penso che sia un ottimo risultato.
La vera difficoltà è quella di operare in una micro economia, in un periodo di crisi, dove la burocrazia ed il sistema molto spesso non sono dalla parte dell’imprenditore. Ne ho toccato con mano alla fine del 2016 dove alcuni membri del vecchio team non remavano più dalla parte dell’azienda a abbiamo rischiato di chiudere. Nessuno mi ha dato una mano e mi sono dovuto rialzare da solo, prendendo delle decisioni molto importanti.
Ogni piccolo errore è fatale per la sopravvivenza dell’azienda.
Applicare tale modello di successo in una realtà come Londra dove ci sono 10milioni di persone con molti fattori a vantaggio per l’imprenditore è molto stimolante e positivo per il progetto Miccone.

Perché Londra?
Londra è sempre stata una città che amavo fin da quando avevo 14 anni, nel 2015 ci sono ritornato e mi sono subito accorto che alcune tecniche utilizzate in molti locali, come ad esempio tostare il caffè all’interno del locale, noi a Pavia la facevamo da più di un anno. Dopo quel primo viaggio sono ritornato nel Novembre 2015 e sono rimasto per un mese per essere sicuro che ci sarebbe stato mercato anche per noi, ho analizzato molto le zone, altri format di food e da questa esperienza ho avuto un’ulteriore prova che anche per noi c’era la possibilità di avere mercato.
Oltre che da questi fattori mi sono reso subito conto che la burocrazia, la facilità di apertura della società, la pressione fiscale ridotta avrebbero senza dubbio agevolato l’apertura del format.
Nel febbraio del 2016 ho deciso quindi di trasferirmi definitivamente a Londra e cambiare per sempre la mia vita, quella della mia famiglia e anche quella del mio progetto.
Pur avendo poche conoscenze, nella prima settimana in cui mi sono trasferito ho trovato lavoro presso un Independent Coffee Shop. In quei mesi mi sono aperto a tutte le possibilità che Londra mi presentava e nell’aprile ho aperto il primo pop-up vicino Tower of London solo la sera per testare se il Miccone insieme a vini e birra artigianale avrebbero funzionato a Londra
Da questa esperienza che è durata un paio di mesi, ho capito che il Miccone sarebbe potuto piacere piacere non solo agli italiani presenti su Londra (500.000), ma soprattutto agli inglesi.
Ad agosto ho deciso di trasferire la nostra Ape Truck da Pavia a Londra all’interno del Mercato Metropolitano per continuare questa avventura. Il tutto ha avuto un riscontro positivo che ci ha portati poi a decidere di vendere l’ape e di concentrarci sull’apertura di punti vendita su Londra.

Langhi Miccone 2 Langhi Miccone

Perché l’Ape Truck non ha funzionato? Me la ricordo davanti all’ufficio ed era iconica…
Il problema principale dell’Ape Truck era l’assenza di spazio. Siamo tuttavia rimasti molto contenti perché grazie a questa esperienza abbiamo saputo ottimizzare le procedure di preparazione dei “Micconi” e dei taglieri. Tutto questo know-how è stato poi portato nel locale di Pavia con una riduzione delle tempistiche di attesa sul servizio e una maggiore armonia nella preparazione.
I problemi che abbiamo riscontrato in Italia sono stati sia di carattere burocratico (alcuni enti non sapevano nemmeno cosa fosse un Ape Truck) sia nella gestione degli eventi, il cui costo la maggior parte risultava essere molto costoso, senza nessuna garanzia di ritorno dell’investimento iniziale.
A Londra, invece, abbiamo capito che per il nostro format – che si basa soprattutto sull’alta qualità di tutti i nostri prodotti – lo street food non riusciva a trasmettere a 360° l’esperienza che si prova mangiando dentro un locale Miccone.
Dall’esperienza però sono nate nuove ricette di “Micconi” e abbiamo avuto un elevato numero di feedback positivi dai clienti inglesi in merito a tutti i prodotti che servivamo, dai “Micconi” al vino e birra dell’Oltrepò Pavese. Tutto questo ci ha dato la consapevolezza che il futuro del Miccone ha una sola strada: diventare grande.

Cosa altro hai imparato da questi anni a Londra che potrebbe essere utile per chi come te volesse avviare una attività lì?
In questi anni ho imparato che Londra è una città che offre tante possibilità di fare business e di conoscere nuove persone. Ti può portare in alto ma bisogna essere preparati. A chi pensa di venire qui in cerca di fortuna, sbaglia in partenza.
Se un imprenditore ha già un progetto minimamente collaudato in Italia, allora le strade per diventare grandi ci sono. Naturalmente bisogna allenarsi tutti i giorni e cogliere tutte le occasioni che si presentano.
La velocità con cui cambiano le cose qui è 10 volte superiore rispetto all’Italia. Avere un’azienda snella e facilmente modificabile per adattarsi al mercato e alle esigenze è la cosa migliore. Bisogna quindi pensare a mettersi continuamente in gioco e reinventarsi sempre.
La burocrazia è pari a 0: per una licenza di food ho aspettato 3 giorni e per aprire la società ho impiegato  1 giorno con una sterlina, il tutto on-line.

Raccontaci l’esperienza del crowdfunding.
Nell’agosto 2017 abbiamo deciso di intraprendere l’esperienza del crowdfunding: abbiamo quindi creato tutto il materiale necessario per presentarci online (video, foto etc.) e ci siamo divertiti molto nel farlo.
Abbiamo lanciato la campagna l’8 Dicembre 2017 raccogliendo in 30 giorni 86.000€, purtroppo non sufficienti a raggiungere il risultato che ci eravamo prefissati. Tutta questa esperienza ci ha portato però molta pubblicità e ha fatto conoscere al grande pubblico il nostro progetto oltre che la possibilità di interloquire con possibili investitori.

Miccone servito

Quali sono ora i progetti per il futuro?
Dopo l’avventura del crowdfunding ora siamo alla ricerca di partner finanziari che ci portino oltre che a capitali anche competenze per aprire il primo punto vendita a Londra e da lì scalare il progetto.
Il nostro sogno è diventare grandi all’estero con molte aperture sia a Londra, ma anche in altre capitali europee. Aprire il mercato online, con l’e-commerce. Poi tornare a investire in Italia, aprendo altri punti vendita, comprare alcuni produttori e far diventare lo store di Pavia il vero headquarter con uffici che si occupino di marketing ecc.
Negli Stati Uniti il fallimento è apprezzato, chi non ha mai toccato con mano il fondo e si è rialzato fatica a ricevere investimenti. Da noi è il contrario.
Io in qualche misura ho fallito, o meglio, alla fine del 2016 ci sono andato molto vicino. L’idea dell’Ape Truck non ha funzionato e il progetto di crowdfunding alla fine non ci ha portato le risorse necessarie.
Ma ho imparato e mi sono sempre rialzato e tutt’oggi continuo questo progetto. Voglio che questo progetto diventi grande e restituisca vantaggi all’Italia e alla mia Pavia, visto che la maggior parte dei fornitori ha base qui. Vorrei che fosse un esempio positivo di rivincita di un territorio che per molti decenni si è dimenticato del suo splendore e delle potenzialità che ha.

Ieri a Roma in occasione dello Startup Day organizzato dall’AGI abbiamo presentato i dati sull’Italia delle scaleup, ossia sui risultati visibili (leggasi imprese) che ad oggi l’ecosistema delle startup è stato in grado di produrre.

I dati prodotti nell’ambito di Startup Europe Partnership restituiscono una immagine impietosa del Bel Paese, che mostra un ritardo temo incolmabile nei confronti dei principali paesi europei e che è a rischio di sorpasso anche da parte di paesi più piccoli e con minore tradizione industriale del nostro. Corriamo un chiaro rischio di fuga degli imprenditori e delle startup, dopo aver subito per anni quella dei cervelli.

Vi lascio l’approfondimento dei dati e mi concentro su quanto emerso dal dibattito, moderato da Riccardo Luna, che ha seguito la presentazione del rapporto.

Al Tempio Adriano a Roma c’erano difatti tanti protagonisti di questo sistema startup, tanti amici e compagni di tante battaglie nel nome delle startup.

Tutti, come il sottoscritto, in qualche misura tanto frustrati quanto corresponsabili di questo fallimento.

Sì, come ha ben detto Massimiliano Magrini, non è stata una riunione sindacale del movimento startup perché non avrebbe avuto senso.

È stata una analisi collettiva di quanto di giusto non è stato fatto e di quanto si potrebbe ancora fare per far decollare un aereo affossato sulla pista.

È stato il riconoscimento del fallimento di anni di duro lavoro.

Fallimento nel non essere riusciti a spiegare, come ha ammesso Marco Bicocchi Pichi, che le startup non sono importanti per se stesse, ma per il paese.

E la prova di ciò è stata che il mondo della politica, invitato a questo incontro, era largamente assente.

Sorge il dubbio che tale assenza certifichi, come ha sottolineato Fausto Boni, l’evidente disinteresse del mondo della politica nei confronti di startup e innovazione. Probabile.

La realtà, meno digeribile da un mondo che ha costruito il proprio manifesto nella capacità di “pitchare” in modo chiaro cosa si vuole fare, è  la nostra incapacità di comunicare alla gente perché le startup sono importanti e a cosa servano. “Se manca una domanda dal paese per le startup, manca la sanzione politica per chi non se ne occupa”, ha detto, senza diplomazia, Antonio Palmieri – “E perché quindi sorprendersi se il mondo della politica non se ne occupa? Fate sentire la vostra voce in modo chiaro, se volete avere una opportunità che qualcuno vi ascolti”. Touché.

Che serve allora?

Una cosa: capitali dal pubblico. Qualche miliardo, come ha proposto Salvo Mizzi, non spiccioli. In questi anni abbiamo migliorato la cornice regolamentare ma manca il quadro. Non si può pensare di giocare con i bastoncini dello Shangai quando gli altri muovono una clave. E non c’è da vergognarsi nel chiederli, ha detto Mauro Del Rio.  Soldi sì, “ma non investiti a pioggia in una logica simil-democristiana, soldi puntati su pochi cavalli vincenti”, ha chiesto Davide Dattoli. Soldi da cui tutti quelli intorno al tavolo non devono trarre benefici. Chiedere investimenti pubblici e farsi pagare management fee per investirli o caricare fee per servizi è semplicemente non corretto e distrugge la fiducia, che è l’altro pezzo che è probabilmente venuto a mancare nel nostro ecosistema, come ha ricordato Gianluca Dettori. E la cosa suona strana visto che il mercato delle startup è costruito sulla fiducia.

Quindi ora o mai più. Perché il tempo, più che i capitali, è la vera risorsa scarsa. Solo così startup e innovazione da emergenza nazionale possono diventare una opportunità nazionale, come ha ricordato Marco Gay.

Altrimenti resteranno solo le buone intenzioni in un paese avviato sulla strada del declino.

Sia che tu sia alla ricerca di lavoro così come sia interessato a trovare partner o collaboratori, o a essere avvicinato da potenziali clienti, avere un profilo LinkedIn professionale e accattivante è molto utile.

Per chi non lo sapesse, LinkedIn è il social network che permette di trovare e collegare il mondo dei professionisti. Sì, si parla di lavoro e professionisti in quanto questa è stata per LinkedIn la mission indiscussa fin dagli inizi: “connettere il mondo dei professionisti per renderli più produttivi e di successo”. La crescita di LinkedIn è stata incredibile. Dal 2010 è passato ad avere da 50 milioni di utenti a oltre 450 milioni nel 2016.

A San Francisco, durante la sera di Halloween, ho fatto quattro chiacchiere con Federico Gobbi, Digital Marketing Specialist & Program Coordinator di Mind the Bridge. Per i non esperti, credo che sia utile condividere alcune considerazioni e consigli di Federico dedicati ai lettori del nostro blog. Semplici e pratici, secondo lo stile della casa Mind the Bridge.

Perché non si può ignorare oggi LinkedIn
Il dato sulla crescita dei membri, ovvero coloro che hanno deciso di iniziare a creare il proprio profilo sulla piattaforma, suggerisce l’importanza oggi di essere presenti.

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Ma non basta essere solo presenti
Infatti oggi è sempre più importante essere parte attiva del sistema. Creare contenuti, condividere quelli di altri, creare fiducia nelle persone che ti seguono.

Bisogna essere riconoscibili
Per costruire, quindi, una presenza che sia anche professionale, dovrai essere riconoscibile. Ciò significa avere una foto profilo ottimizzata (400×400 pixel, con gli occhi che guardano l’obiettivo e sfondo neutrale), ma anche relazionarsi in modo appropriato con le altre persone sulla piattaforma (cosa scrivi e quanto spesso comunichi con la tua rete).

Non solo quando si cerca qualcosa
Più importante, non è solo necessario che tu lavori sulla tua presenza solo quando stai cercando una posizione lavorativa o per reclutare qualcuno. Avere una presenza su LinkedIn è un lavoro che si sviluppa giorno dopo giorno, nello stesso modo in cui si mantengono vive le relazioni offline (della vita non digitale).

I dieci “comandamenti” per essere efficaci su LinkedIn
Diamo, quindi, uno sguardo a quali sono le 10 azioni che devi mettere in atto per costruire la tua presenza su LinkedIn da adesso e soprattutto per catturare l’attenzione di coloro che stai cercando.

  • Apri il tuo profilo tutti i giorni. La maggior parte delle volte in cui ho sentito parlare di persone che non hanno successo sui Social Media, o più nella fattispecie su LinkedIn, la ragione era sempre la stessa. Queste persone non aprivano il loro profilo tutti i giorni, in molti casi nemmeno per settimane. Far crescere il profilo LinkedIn con approfondimenti, commenti o aggiornamenti sul tuo lavoro, non richiede di essere un Social Media Manager. Bisogna solo farlo: just do it. Quindi, apri il tuo profilo e naviga nella piattaforma, scopri strumenti o news pubblicate da altri e “likali” (metti “mi piace”).
  • Metti mi piace agli aggiornamenti della tua rete. La prima cosa che dovresti fare tutte le volte che apri il profilo LinkedIn è likare quanto possibile gli aggiornamenti della tua rete professionale. I tuoi amici cambiano lavoro, iniziano programmi di formazione in università o scuole specializzate o semplicemente aggiungono aggiornamenti al loro profilo. Vuoi catturare la loro attenzione? Inizia a fare qualcosa per loro e lika i loro aggiornamenti. ANCHE LINKEDIN STESSO TI DICE DI FARLO – “1ST WAY TO KEEP IN TOUCH” (prima modalità per rimanere in contatto).
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  • Controlla gli inviti che ricevi e accetta quelli corretti. Ricorda, le persone che vogliono fare business con te, potrebbero trovare qualcun altro se non rispondi. Devi essere il primo a dimostrare loro di avere ciò di cui hanno bisogno, evitando quindi di perdere il treno. Controlla più volte gli inviti che ricevi e accetta quelli che arrivano da persone che conosci o, almeno, analizza se il loro profilo è interessante. Se vedi qualcuno che è nel tuo settore, è molto probabile che questa persona voglia parlare con te per un accordo tra la tua società e la sua o essere uno dei tuoi clienti: è molto utile accettarlo. Dall’altra parte, se si tratta di qualcuno che non lavora nello stesso campo, è meglio controllare bene il profilo e farne un valutazione.
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  • Controlla chi ha guardato il tuo profilo nelle ultime ore. Questo è lo step più importante. Specialmente se non si possiede un account premium (a pagamento). Dovresti controllare chi ha guardato il tuo profilo nelle ultime ore. Molte persone attraversano il tuo profilo e, quando questo accade, significa che stanno cercando qualcosa. I recruiter cercano nuove persone da inserire nell’azienda per specifici motivi di crescita o nelle università per completare un corso, i venture capitalist per valutare la posizione di certe persone all’interno della società e comprendere se sei in grado di collegarli a un’opportunità di investimento oppure valutare il processo di raggiungimento degli obiettivi delle società o, ancora, valutare profili che sono nella tua rete. Assicurati che tu sappia esattamente chi sta guardando il tuo profilo e cerca di capirne il motivo. La soluzione migliore è aggiungerli e domandare come abbiano raggiunto il tuo profilo e perché. Clicca nel box che trovi nello stesso posto che ho selezionato per te nel mio profilo.
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  • Unisciti, segui, modifica e aggiungi. Una volta che sei entrato nella pagina per vedere le tue visualizzazioni avrai la possibilità di SEGUIRE o AGGIUNGERE professionisti, MODIFICARE o UNIRTI a gruppi che possano aumentare la tua visibilità sulla piattaforma. Ogni azione ti permette di ottenere una certa percentuale. Puoi misurare la tua percentuale totale con il Social Selling Index. Questo indice misura la tua performance sulla base di quattro elementi essenziali: creare il brand professionale, trovare le persone giuste, interagire con informazioni rilevanti e costruire relazioni.

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  • Conferma e raccomanda i tuoi amici. Una delle cose migliori da fare è confermare tutte le persone che conosci che sai stanno svolgendo un gran lavoro nello sviluppare le loro abilità. Nello stesso modo in cui tu raccomandi loro, loro faranno lo stesso con te e la tua presenza sarà sempre più efficace. I recruiter e i professionisti controllano anche le tue abilità: è importante per loro conoscere come ti considerano le persone nella tua rete. Si tratta di un modo affidabile per provare la tua onestà e le tue capacità.
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  • Pubblica giornalmente aggiornamenti cool sulla tua società/industria. Adesso è il momento di dimostrare le tue abilità pubblicando aggiornamenti interessanti. Per catturare l’attenzione di persone rilevanti per te, dovrai essere SEXY. Perché sexy? Le persone devono pensare che tu sia una risorsa interessante di news. Immagina di essere un giornalista: devi condividere informazioni a cui le persone nella tua rete siano interessate giornalmente. L’uso di immagini aiuterà a incuriosire la tua audience verso i tuoi aggiornamenti. Ricorda: sii professionale, questo social non è come Facebook. I professionisti vogliono leggere cose interessanti sul loro business, molto spesso lo fanno nelle ore di lavoro (non essere noioso).
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  • Scrivi cose interessanti. Similmente a come leggi questo articolo, dovrai fare la stessa cosa per te stesso: scrivere articoli ti permette di essere riconoscibile come professionista che parla di argomenti per professionisti, anche dando suggerimenti o essendo utile ad altre persone. Starai creando un flusso di articoli e contenuti rilevanti per il tuo network. Scrivi un articolo alla settimana.LinkedIn8
  • Misura i tuoi risultati – Social Selling Index. Ancora un piccolo sguardo al Social Selling Index. Voglio raccontarti una storia breve: ho iniziato a lavorare sul mio SSI per divertimento. Ai tempi stavo facendo una gara con un amico/collega, Marco Aspesi, che consisteva nel raggiungere una percentuale superiore alla sua. Il mio SSI ha iniziato a crescere e a crescere. Allo stesso tempo ho iniziato a catturare l’attenzione di molti professionisti in tutto il mondo. Fino a quando un giorno ricevo un messaggio in InMail (solo per account premium): un recruiter mi contattava per un’opportunità di lavoro in una società di San Francisco. Purtroppo non stavo cercando lavoro e ho rifiutato l’opportunità. Ma questa storia dovrebbe essere utile a capire la rilevanza di questo strumento e la sua affidabilità.LinkedIn9
  • Riparti di nuovo. Continua a sviluppare questo processo giornalmente e/o settimanalmente e vedrai un grafico in crescita nel tuo profilo e nelle tue opportunità.

 

 

Ho provato un misto di diversi sentimenti di fronte alle polemiche susseguite alla cena alla Casa Bianca dedicata da Obama all’Italia come ultimo evento della sua presidenza.

Quello che tutto il mondo ha visto come “un importante segno di attenzione all’Italia e al suo governo” (parole di Ferruccio de Bortoli), in Italia è stato vissuto in modo inspiegabilmente negativo. Critiche, polemiche, commenti bassi e feroci che non hanno risparmiato neanche la splendida atleta paralimpica Bebe Vio, invitata a fare parte della delegazione.

Una buona regola che cerco di applicare è di astenermi dal commentare quando la pancia tende ad avere il sopravvento sulla testa. Oggi mi sono imbattuto in diversi post che esprimono, meglio di come potessi mai immaginare di fare, il mio pensiero sul tema. Tra questi quello di Riccardo Cazzaniga che, in riferimento al selfie del Presidente Obama con la nostra campionessa, commenta “Questa foto racconta di quanta strada abbiamo fatto, di dove siamo arrivati oggi, sempre più lontano dagli obbrobri del passato[…]Fate largo, perdenti, che qui siamo di fronte a due campioni”.

E poi quello di Caterina Bonetti che, in particolare, tocca, in modo garbato e puntuale, il grande male (soffuso e diffuso) che affligge il nostro bellissimo paese: “l’astioso tentativo di trascinamento in basso di chi sembra avercela fatta. Poco importa se con impegno e sacrificio”. La filosofia del “se sto male io devono star male anche gli altri”, che è solo acuita dalla crisi ed è – come discusso in altre occasioni  – un connotato strutturale della nostra cultura.

Quindi giusto seguire un’altra regola: dare spazio agli altri quando sono in grado di dare un contributo migliore del tuo.
Qui il link al bell’articolo di Caterina. Da leggere due volte al giorno, mattina e sera.

La tecnologia che migliora le prestazioni visive e le performance sportive alla ricerca di un campione italiano

Intervista con il CEO, Nimrod Madar

Nimrod, raccontaci quando e come nasce GlassesOff.
GlassesOff nasce nel 2007 sulla scia delle ricerche e degli studi condotti negli ultimi 30 anni dal professor Uri Polat, considerato in tutto il mondo un luminare in visual neuroscience. Nasce inizialmente come R&D Lab fondato dallo stesso Polat e da altri due investitori fintech.
Io sono stato chiamato nel 2011 a trasformare questo centro studi in una azienda con una chiara visione di business, un prodotto e degli obiettivi. Nel 2012 abbiamo iniziato a pensare quale fosse il migliore device per fornire il prodotto, che si è rivelato essere il cellulare (anziché il computer). Nel 2014 abbiamo lanciato la prima app mobile negli States, avendo per la prima volta la possibilità di testarne l’efficacia su vasta scala. Poi abbiamo esteso a Francia e Belgio. E oggi in GlassesOff lavorano 35 persone.

Chi ha investito in GlassesOff? E quanto?
Diciamo che la raccolta di capitale non è mai stata un problema poiché l’interesse verso il prodotto c’è ed è elevato. In questi anni abbiamo raccolto circa 15 milioni di dollari, per la maggior parte provenienti da investitori privati e da alcune istituzioni. Si tratta perlopiù di capitale che arriva da Israele, Stati Uniti ed Europa (Svizzera, in particolare).

Come è cambiata GlassesOff negli anni?
Negli ultimi 8 anni abbiamo investito molto in R&D per migliorare la tecnologia e rendere automatizzato tutto il processo di training attraverso la app, che un tempo era manuale: pensate a centinaia di parametri da monitorare con una customizzazione dell’utente al 100%! Negli ultimi due anni è stato quindi costruito un algoritmo in grado di elaborare tutta questa immensa mole di dati e di decidere le modalità attraverso cui ogni singola persona (con tutte le sue caratteristiche uniche) può passare da una sessione di training alla successiva. Un lavoro immane conseguito con enorme successo: il 90% degli utenti, infatti, precedentemente incapaci di leggere senza l’ausilio degli occhiali da lettura, riesce a leggere regolarmente il font di un giornale dopo aver ultimato il programma GlassesOff. Un altro dato molto significativo è la riduzione della visual acuity da 2.44 a 1.56, che in termini di età dell’occhio corrisponde ad un ringiovanimento medio dell’occhio di 8,6 anni. Tutto questo è dimostrato da uno studio condotto presso l’Università di Berkeley del 2012 e pubblicato anche su Nature Scientific Report, una delle più prestigiose riviste scientifiche al mondo. A proposito, quell’articolo resta il più letto in assoluto su Nature. Queste nuove tecnologie, come si può intuire, non vanno a impattare su una piccola porzione di popolazione ma sono rivolte a tutti: chiunque verso i 40 anni comincia infatti ad avere problemi con la lettura. Solo in Italia nel 2014 il mercato potenziale era di 28milioni di utenti.

Per quanto occorre usare GlassesOff per osservare i risultati promessi?
Le nostre sessioni di training durano 10-12 minuti. L’utente deve farne tre a settimana per due-tre mesi, quindi parliamo di un totale di circa 10 ore. Non c’è bisogno di stare in un ambiente buio ma certamente non è consigliata la luce diretta sul display.

Su cosa agisce GlassesOff?
In breve: da una parte abbiamo l’occhio, che è responsabile della cattura dell’immagine, poi c’è il cervello che è responsabile della sua interpretazione. Perciò alla fine noi “vediamo” nel nostro cervello, non nei nostri occhi. Grazie alla nostra tecnologia possiamo impattare su ogni livello di “vista”: se non vedi da vicino, possiamo migliorare l’accuratezza della tua vista, chiaro. Ma uno dei nuovi prodotti che stiamo lanciando a breve è dedicato in realtà a chi non ha problemi di vista ma possiede, per esempio, 10/10. Anche queste persone possono utilizzare la nostra tecnologia per migliorare le loro vista “funzionale”.

Cosa significa?
Significa che quando vai dal tuo oculista vieni messo di fronte alla lettura di una tabella statica di lettere e numeri, ma questa non è la condizione che i nostri occhi vivono quotidianamente. Nella tabella gli elementi sono nero su bianco, ben distanziati, con un buon contrasto. Ma quando guardi la tv questo non accade. Vediamo le immagini in movimento, a colori. Idem quando guidiamo l’auto: la situazione è ovviamente molto diversa. Perciò quello che abbiamo raggiunto attraverso la nostra tecnologia è la capacità di migliorare, per esempio, la “velocità di lettura” (speed of vision), ovvero il tempo di cui una persona ha bisogno per mettere a fuoco qualcosa prima di poterla vedere in maniera chiara e ben definita (modalità 10/10). Sulla base di questa premessa abbiamo sviluppato un set di prodotti che aiutano i giovani sportivi a migliorare le loro performance visive ed è il motivo per cui abbiamo recentemente cambiato il nome della nostra azienda da GlassesOff a InnoVision Labs, che richiama i concetti di innovazione e vista.

Avete condotto studi di questo tipo?
Recentemente siamo stati contattati dall’Israeli Airforce per alcuni problemi con i piloti da combattimento prossimi ai 40 anni. In realtà loro continuavano a ottenere un punteggio di 10/10 a seguito di una normale visita oculistica pur lamentandosi delle loro performance. E potete solo immaginare quanto sia problematico per un pilota non vedere più come prima. Bene, noi abbiamo iniziato ad agire sulla vista funzionale cambiando alcuni parametri e mostrando loro immagini non più in modalità statica ma, per esempio, soltanto per brevissimi intervalli di tempo (parliamo di poche decine di millisecondi) che è la situazione “reale” di volo. Ed ecco che mentre nella situazione “statica” sia i piloti giovani che quelli più vecchi riportavano una vista 10/10, nella situazione modificata le prestazioni dei secondi chiaramente peggioravano. Abbiamo agito sulla speed of vision (o “processing speed”) per trovare loro una soluzione e migliorare le loro performance: ora vedono come prima. Più o meno la stessa esperienza la abbiamo testata su una squadra di baseball americana: anche questi atleti hanno mostrato un miglioramento significativo e i risultati di questo studio saranno pubblicati nei prossimi mesi.

Quindi oggi a quali mercati siete orientati?
Principalmente tre: 1. vision sharpness: ovvero, se hai difficoltà nel vedere chiaramente e usi gli occhiali da lettura, puoi usare la nostra tecnologia per compensare e migliorare la tua capacità cerebrale;  2. individual performance: anche se possiedi un’ottima vista, possiamo aiutarti a raggiungere ancora più elevati livelli di prestazione. Questo, soprattutto tra gli sportivi, può fare la differenza tra vincere e perdere; 3. diagnostic product: una linea di prodotti in grado di diagnosticare, appena presentano i primi sintomi, patologie che impattano sulla nostra vista come per esempio dislessia o glaucoma. Questi risultati a oggi richiedono complicate e dispendiosi test medici che invece si possono effettuare semplicemente ed economicamente, attraverso il proprio smartphone, nel comfort della propria casa.

A cosa state lavorando al momento?
Al momento ci stiamo concentrando sul miglioramento della User Experience dei prodotti. Ovvero, come rendere più piacevole la fruizione della app mantenendo la migliore esperienza scientifica possibile. Ovviamente l’attuale prodotto funziona ottimamente con le persone altamente motivate, ma quando vai su un mercato di massa devi anche capire come l’utente approccia la app e se percepisce l’esperienza come piacevole. Stiamo quindi testando lo sviluppo di un “casual game” che permetterà alle persone di divertirsi mentre migliorano le proprie prestazioni visive. In questo caso è probabile tuttavia che per compensare le feature legate al gaming si dovranno “allungare” le sessioni di training di qualche minuto. Ma verosimilmente tutto sarà più divertente e le due cose si compenseranno.

Prossime sfide?
Stiamo sviluppando un altro prodotto per le performance nello sport. Come genitore, solitamente non incoraggerei mio figlio a giocare con un mobile game, anzi, di solito cerchiamo di fermarli. Ma ora per la prima volta abbiamo a disposizione una tecnologia scientificamente valida che abilita i bambini a giocare mentre migliorano le prestazioni cerebrali, la capacità di lettura, la vista e in generale le performance della loro vita. Come genitori, coach e insegnanti crediamo che per la prima volta possa crearsi un ambiente stimolante che incoraggi i bambini verso questo tipo di tecnologie e giochi in grado di dare benefici concreti.

Avete già un primo prodotto di questo tipo?
Sì e lo lanceremo a breve negli Stati Uniti. Si basa sui giocatori di basket e consentirà di migliorare le prestazioni visive nelle singole feature (messa a fuoco, nitidezza immagine e così via).
Lo abbiamo realizzato in partnership con Chris Paul, uno dei più famosi playmaker dell’NBA che gioca con i Los Angeles Clippers, medaglia d’oro, 8 volte All Star, una delle figure più positive del basket statunitense. Questo perché vogliamo stringere partnership con veri atleti che abbiano passione per la tecnologia e per il mondo dei giovani e che vedano insieme a noi la possibilità di creare reale valore per tutti gli sportivi. Non vediamo quindi l’ora di scoprire quale sarà l’atleta italiano che vorrà essere dei nostri.

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Avviso: il post di oggi rischia di essere un po’ autocelebrativo. Venerdì abbiamo difatti lanciato il nuovo logo di Mind the Bridge. Dopo oltre otto anni, l’immagine necessitava di un refresh, sebbene fossimo molto affezionati al nostro ponte. Tra l’altro non siamo gli unici ad avere fatto i lavori in casa. Google, Uber, Enel, TIM hanno rimesso mano ai rispettivi brand. E cambiare logo è un passaggio forte, quasi come cambiare casa (“a new logo is a big deal. Kind of like moving to a new house“, riprendendo le parole del mio partner in crime Marco Marinucci).

Perché cambiare quindi? La vera domanda è perché non farlo.

Nella realtà, siamo già cambiati tantissimo in questi otto anni. E di certo cambieremo ancora.

Perché non cambiare significa essere incapaci di stare al passo coi tempi e diventare marginali, se non controproducenti. E quindi significherebbe tradire la nostra missione che è quella di provare ad avere un impatto (possibilmente positivo) sul mondo.

We are still a bridge, and we will always be such. However, this bridge has been evolving with time and will do in the future“.

 

 

L’unico piacere di prendere un volo alle 7 della mattina per Londra è quello di avere tempo di sfogliare il Financial Times.
Piacere nel piacere è leggere la rubrica “Dear Lucy” di Lucy Kellaway che trovo sempre gradevole e spesso utile.

Questa settimana Lucy commenta il fenomeno del “leaning in” ossia spendere tempo in eventi di networking.
Al riguardo è categorica: “turning up to networking events is the most inefficient way of succeeding ever invented”.
Come? Un altro mito del mondo delle startup e del business 2.0 vacilla.

Tre regole chiare da seguire per scegliere se andare o meno a un evento. La decisione è no (inderogabile) a meno che la cosa:
1) ti faccia piacere (“enjoyable”): allora il peso (lavorativo) della cosa si attenua e rientra nella categoria del tempo libero;
2) sia utile per conseguire uno specifico obiettivo (“devo vedere la tale persona”);
3) non ti crei problemi di nessuna sorta (“non sottrae tempo di qualità alla tua vita privata o familiare”).

Alla fine, se rispetti queste regole, finirai per limitare la tua presenza a due o tre eventi all’anno con il vantaggio di aumentare il tuo “scarcity value” (la gente ti vedrà con maggiore interesse).

Vantaggio correlato: non perdere tempo e focalizzarti sull’unica cosa che alla fine conta per il successo (fare risultati).

Corollario per i workaholic (come il sottoscritto) che si sentono in colpa quando non sfruttano una opportunità: “Stop caring quite so much” al lavoro. Essere meno ossessionati non peggiora le performance e i risultati, ma ti fa lavorare meglio.

DSC02622.JPGSettimana scorsa, a Pavia, nella splendida Sala Bianca del Collegio Borromeo (disclaimer: sono di parte, ma sfido chiunque a sostenere  il contario, vedasi foto allegata), si è aperta la Coaching Session di Mind the Bridge. Una tre giorni, coordinata da Elisabetta Ghisini, parte della MtB Faculty in Silicon Valley, per aiutare le 15 startup selezionate dalla Business Plan Competition 2010 di Mind the Bridge a mettere a punto il proprio pitch in vista del Venture Camp che si terrà  il prossimo 5-6 novembre a Milano, presso il Corriere della Sera.
MtB_Coaching_2010.jpgNell’evento di apertura abbiamo fatto un pò di riflessioni su come presentare una idea imprenditoriale a uomini di business e a venture capital in particolare. La criticità è sempre la stessa: le idee imprenditoriali di solito vengono a persone con un background tecnico-scientifico che, per loro natura, tendono a privilegiarne l’aspetto tecnologico-funzionale (il “come funziona”) e a trascurare le implicazioni applicative (il “cosa serve”). E il mondo degli affari ha una ossessione per le funzioni d’uso.
Di seguito un pò di pillole estratte dagli interventi del sottoscritto, di Elisabetta Ghisini e Evan Nisselson.
1) nella comunicazione manageriale si parte dalle conclusioni, al contrario dalla comunicazione scientifica ove si parte dalle evidenze empiriche.
2) nella business communication premia esseri sintetici (l’unità di misura sono i minuti, non a caso si parla di elevator pitch) e confidenti (chi si mostra dubbioso e poco sicuro, raramente attira l’attenzione).
3) la comunicazione deve essere mirata sulla audience (al cambiare dell’interlocutore, i contenuti e i messaggi vanno adeguati).
4) nel dialogo con i venture capital bisogna tenere conto delle loro specificità (hanno un approccio 24/7, sono “time deprived”, hanno una discreta avversione verso i progetti poco ambiziosi, sono estramemente selettivi).
5) Il loro “no” non è mai un no in senso assoluto, ma è piuttosto un “non ora”. Indi, bisogna tenere sempre aperta un porta di dialogo, anche dopo che il primo meeting non ha prodotto i risultati sperati.
6) nella discussione non vanno dimenticati i bias culturali: persone di diversi paesi hanno diversi modi di pensare e communicare.
In sintesi: conta la sostanza (senza una reale innovazione, non si costruisce nulla), ma conta anche come questa viene comunicata (difficile trovare ampio seguito se non ci si riesce a fare capire).