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Alberto Onetti


Diviso fra Europa e Stati Uniti, lavora per creare un ponte fra la Silicon Valley e le startup europee.
Gli strumenti sono la Mind the Bridge Foundation fondazione californiana di cui è Presidente che promuove l’impenditorialità in Europa e nel mondo, e  Startup Europe Partnership (SEP), l’iniziativa che la Commissione Europea gli ha affidato per sostenere
la creazione di startup di successo.
Professore presso l’ Università degli Studi dell’Insubria di Varese e Serial Entrepreneur, ha contribuito ad avviare e fare crescere diverse aziende (tra queste c’è Funambol, società californiana leader al mondo nel campo del mobile personal cloud).

Ha pubblicato, tra gli altri,  Strategia d’Impresa (edito da Il Sole 24 ORE e giunto alla quinta edizione) e Business Modelling for Life Science and Biotech Companies  (pubblicato da Routledge negli Stati Uniti).


Mercoledì abbiamo presentato a Brussels al Parlamento Europeo il nostro ultimo studio su “StartupCity Hubs in Europe“.

Rimandando alla lettura del report (qui il link per il download) per avere il quadro completo dei dati e dell’analisi, mi limito a segnalare le evidenze principali e alcuni commenti (personali).Report StartupCity cover

 

 

 

 

 

 

  • Il 67% delle scaleup in Europa è concentrato in 48 città, di solito nella capitale. Se si restringe l’analisi, 10 città ospitano il 53% delle scaleup europee.
  • In soli 6 paesi ci sono due poli di similare dimensione: Spagna (Barcellona e Madrid, in questo ordine, Portogallo (Lisbona e Porto), Polonia, Belgio, Svizzera e Cipro
  • In soli 4 paesi il polo principale non è la capitale (Spagna, Italia, Svizzera e Cipro)
  • L’aspetto interessante e allarmante al tempo è che questa concentrazione (ai limiti del mostruoso) dell’economia dell’innovazione e delle startup intorno a pochi hub non riflette la rilevanza che le città che le ospitano hanno oggi, né in termini di ricchezza prodotta (rappresentano il 34% del GDP dei rispettivi paesi) né tantomeno di popolazione (vi abita il 14% della popolazione).
  • La new economy (o l’economia dell’innovazione e delle startup) è costruita sul principio che “Winners take all”. Questi dati mostrano che lo stesso principio tende ad applicarsi anche nella geografia economica. Le attività economiche e la ricchezza prodotta tenderà ad addensarsi su pochi poli, portando a una crescente marginalizzazione delle città di secondo livello (quelle che chiamiamo come “tier-two startup cities” nel report) nonostante queste abbiamo un ruolo importante. Nel report è presente un indicatore (StartupCity Future Growth) che visualizza quali città sono destinate a conquistare terreno e quali invece a perderlo.
  • Generalizzando ed estremizzando, come la industrializzazione ha progressivamente portato a svuotare campagne e paesi a favore delle città, la new economy e le startup potrebbero portare ad ammassare le attività produttive su una o massimo due città per paese.
  • E questo, come ha commentato Isidro Laso Ballesteros della Commissione Europea, può dare spazio a fenomeni di disgregazione e separazione territoriale, a livello sia nazionale che europeo.

Crediamo che questo non sia accettabile  da un punto di vista politico e sostenibile sotto il profilo economico (basta vedere le crescenti tensioni che ci sono oggi in Silicon Valley).

Per questo abbiamo lanciato una iniziativa “StartupCity Europe Partnership” per cercare di supportare attivamente le città di secondo livello a sviluppare piani strategici in tema di startup improntati alla specializzazione (non si può fare tutto, soprattutto se si è piccoli) e alla internalizzazione (bisogna essere parti di reti più grandi, soprattutto se si è piccoli). Per 150 città europee (esclusi i 48 hub principali e le capitali) abbiamo fatto una prima valutazione sulle potenzialità di ripresa (StartupCity Innovation Potential). Tra queste ci sono Torino, Napoli, Bologna, Pisa, Firenze, Palermo, Padova, Reggio Emilia,  Trento, Cagliari, Pavia e Como.

Ultima nota. Molti sindaci erano a Brussels per la presentazione dell’iniziativa. Nessuno dall’Italia.

Diverse testate internazionali hanno dato spazio o si sono interessate all’analisi dei dati. Nessuna dall’Italia.

La sensazione è quella di un paese troppo assorbito dalla contingenza e dall’emergenza per accorgersi e riflettere sui grandi temi di sviluppo (o di decadenza).

E, senza sviluppo e prospettiva, si tenderà sempre a rincorrere e subire la contingenza e l’emergenza. Con sempre meno risorse.

Presentazione SCEP al Parlamento Europeo

Presentazione SCEP al Parlamento Europeo

Spesso ripeto che l’unico risultato certo del fare startup e farle crescere è che da questa si genereranno nuove startup. È quanto viene definito “spin-off” (ossia nuove aziende che nascono dall’alveo di una azienda esistente).

Lo avevo pronosticato nel caso di Mosaicoon, lo ho sempre detto quando mi chiedono di parlare di Funambol, la scaleup californiana-pavese che ho lanciato, più di una decade fa, insieme a Fabrizio Capobianco e a Stefano Fornari. Molti dei dipendenti ripartiranno da imprenditori (alcuni peraltro lo hanno già fatto). Perché partecipare a una avventura imprenditoriale ambiziosa con profilo internazionale contagia.

La settimana scorsa tuttavia devo ammettere che la realtà è andata oltre le mie previsioni, quando ho visto un nuovo libro (“Il respiro di Marte“) su Amazon il cui autore è (udite udite) il nostro Head of Engineering Andrea Gazzaniga.

Devo ammettere che sono rimasto sorpreso. E sono rimasto ancora più sorpreso dopo averlo letto. Per la visione, per la storia, ma anche per la ricerca che c’è dietro.

Mi è piaciuto l’incipit  (molto imprenditoriale e “lean”):

“Quando è impossibile fare una cosa in un certo modo, bisogna semplicemente trovarne un altro”.

Ma, forse ancora di più, la riflessione finale:

“Nel suo complesso, l’evoluzione dell’umanità dipende poco dal comportamento dei singoli, molto più dalle condizioni culturali ed economiche di un dato momento. Ci sono però situazioni particolari, persone che si trovano ad un bivio dello sviluppo storico e che, con le loro decisioni, spostano l’equilibrio verso l’una o l’altra direzione possibile”.

Nel mezzo un bel romanzo, che non svelo perché si fa leggere volentieri (sono di parte? può darsi, ma è giusto essere orgogliosi delle “intraprese” dei tuoi).

Chiudo con una foto recente del gruppo Funambol.

fun team

Lascio a voi scommettere quanti imprenditori (e autori di best seller) ci sono tra loro.

La settimana scorsa il torpore del piccolo villaggio delle startup italiane è stato turbato dall’annuncio della chiusura di  Mosaicoon.

Ha fatto notizia, la voce si è sparsa di casa in casa e ciascuno nel villaggio ha aggiunto la sua.

Con la stessa passione e disillusione (e competenza) con cui è stata commentata l’uscita dell’Italia dal mondiale, nel villaggio si è dibattuto del caso Mosaicoon.

Il buon Ugo Parodi Giusino è passato da eroe a fellone a colpi di click. “Esperti” – che non hanno mai messo piede a Isola delle Femmine e che non hanno mai gestito aziende tecnologiche con più di cinquanta persone e/o cento mila euro di fatturato – si sono sentiti in obbligo di giudicare il suo operato imprenditoriale.

Ma queste sono le dinamiche del villaggio, del piccolo villaggio delle startup italiane.

La realtà è un’altra.

  • La notizia della caduta di Mosaicoon fa un rumore assordante perché di aziende come Mosaicoon ce ne sono poche.
    • Dai nostri dati (pubblicati la settimana scorsa) le “scaleup” in Italia sono 178 a fine dicembre. Rectius 177.
  • Le scaleup sono startup che sono cresciute. La crescita non le rende tuttavia invulnerabili. Solo dannatamente più difficili da gestire.
    • Un conto è virare una canoa con due persone a bordo, un conto è farlo con una nave da cento persone. Gli spazi e i tempi di manovra sono più ristretti.
  • Al pari delle startup, anche le scaleup falliscono perché lavorano sul fronte dell’innovazione. E per chi lavora su quello spazio, il non riuscirci è la norma.
    • Se l’80-85% delle startup non ce la fa, è ragionevole assumere che una percentuale minore ma sempre significativa delle scaleup faccia la stessa fine.
  • La differenza tra startup e scaleup è che mentre le startup falliscono, di solito le scaleup che “faticano” vengono comprate. Quindi le percentuali di cui sopra sono annacquate.
    • I nostri dati mostrano bene questo aspetto: il 71% delle acquisizioni di startup non restituisce il capitale investito. Solo il 13% delle acquisizioni di startup è veramente lucrativo per chi vende.
  • La vera notizia è che nessuno si è mosso per comprare Mosaicoon.
    • Questo è il limite sostanziale di un ecosistema (italiano ma anche europeo) ancora in ritardo, in cui le acquisizioni di startup di fatto non sono una prassi diffusa per importare talento e innovazione.

M&A Multiple Price Paid/Capital Raised

Credo che la storia di Ugo Parodi Giusino e di Mosaicoon, come tutte le storie di startup, sia una storia di coraggio e successo. Una storia il cui lieto fine non è quasi mai alla fine del film ma durante la proiezione.

L’esperienza di Mosaicoon ha comunque contributo a innalzare il tessuto imprenditoriale di una regione già ricca di talento ma ancora povera di esempi (su scala lievemente diversa vale lo stesso per l’Italia).

Per le cento persone che hanno lavorato a Isola delle Femmine così come per tutti quelli che hanno visto cosa si può fare quando si è mossi da un disegno ambizioso, questa esperienza rimarrà. E, passato il momento, questo fiume di talento corroborato da esperienza imprenditoriale si riverserà nel sistema dando luogo a tante nuove Mosaicoon. Spin-off è il termine se vi piace l’inglese. Fuoco imprenditoriale se preferite l’italiano.

Perché le startup, come le scaleup, non falliscono. Imparano e ripartono in nuove forme.

Il mondo delle startup non si addice a chi ama le storie a lieto fine.

Disclaimer: avevamo selezionato Mosaicoon nel 2015 per SEC2SV in quanto azienda in crescita con un piano di sviluppo internazionale che includeva gli Stati Uniti.

Le startup sono vettori di innovazione.

L’innovazione dovrebbe concentrarsi sui grandi problemi e sui grandi mercati.

Perché, dietro a quelli, si celano grandi opportunità e, di conseguenza, business model sostenibili.

Uno di questi è il settore delle costruzioni.I dati mostrano (tra gli altri, basti vedere l’Industry Digitization Index) come l’edilizia sia ancora uno dei settori meno “toccati” dal digitale. Il che significa che c’è un’opportunità enorme di innovazione, un’autostrada (se si vuole stare nell’ambito delle infrastrutture) che le startup dovrebbero imboccare a tutta velocità.

Digital Costruction

E invece no. Parlando con i grandi player, emerge come, aldilà di una certa “arretratezza” del settore (molto frammentato e tradizionale), manchino soluzioni innovative da poter valutare e adottare.

Per questo motivo la Commissione Europea, attraverso Startup Europe Partnership, ha lanciato la prima piattaforma verticale di innovazione appunto dedicata al tema delle Digital Construction. Che ha trovato l’immediato supporto di due grandi aziende (Acciona, gruppo leader spagnolo nel campo delle costruzioni, e Autodesk, azienda software americana che ha sviluppato una piattaforma aperta – BIM360 e Forge – per le startup che vogliono sviluppare soluzioni per tutte le fasi del ciclo di vita di una infrastruttura, dalla progettazione all’esecuzione). E molte altre hanno manifestato l’interesse ad aderire alla piattaforma di Startup Europe Partnership perché il bisogno è reale e attuale.

E l’opportunità è enorme anche perché il mercato dell’edilizia a livello mondiale è uno dei pochi in forte crescita.

La popolazione è destinata a crescere, la dimensione delle città a raddoppiare,
con previsioni di 1000 nuovi edifici da costruire alla settimana
.

Quindi per le startup è tempo di mettere questo settore nel mirino.

Per quelle che lo avessero già fatto, è aperta una call europea senza scadenza, perché il bisogno non è destinato a venire meno.

Qui il link per aderire.

 

 

La settimana scorsa avevo pubblicato le mie riflessioni a valle degli Stati Generali sulle startup in Italia che si sono tenuti a Roma in occasione dello Startup Day organizzato dall’AGI.

Ne è derivata una discussione tanto ampia quanto interessante che tuttavia non traspare dalla sezione commenti del Corriere (che difatti è praticamente deserta, anche perché oggettivamente inutilizzabile – riporto in calce (*) uno dei tanti “pareri” al riguardo).

Il dibattito avviene in rete e non sui media tradizionali. Il che – di per sé – è un chiaro segnale della distanza tra questi mondi. Distanza che rende il mondo delle startup ancora per larghi tratti autoreferenziale. E inascoltato.

Per questo credo sia utile riportare qui parte delle riflessioni, per tenere il canale di comunicazione aperto con il resto del mondo, che resta rilevante ed essenziale.

Tra i diversi commenti ricevuti, riprendo quanto ha detto Mauro del Rio, fondatore di Buongiorno, una delle figure storiche dell’ecosistema italiano.

Mauro scrive:

Condivido. In sintesi:

  • per fare partire il settore servono investimenti dimensionalmente paragonabili a quelli di altri mercati, quindi due ordini di grandezza superiori ad oggi;
  • gli investimenti in startup in Italia non ritornano: per questo, e non per ragioni “sbagliate”, ci sono pochissimi investimenti privati;
  • quindi gli investimenti non possono che essere pubblici;
  • meglio se espliciti (quindi trasparenti) piuttosto che impliciti attraverso agevolazioni/tax exemption/etc. (complicati, poco trasparenti)
  • nel momento in cui come industry del venture capital chiediamo importanti investimenti pubblici, non possiamo pensare di beneficiarne direttamente a prescindere dai risultati. Quindi le fee di gestione su investimenti pubblici vanno drasticamente abbattute o azzerate (oggi sono il 2/2,5% all’anno, che sulla vita tipica di un fondo equivalgono al 20-25% del capitale messo a disposizione, valori inaccettabili per un investimento pubblico).

Che succeda tutto questo mi sembra poco probabile. Quindi tra le due ipotesi dell’articolo di Alberto (“ora o mai più”) ahimè propendo per la seconda

Mauro Del Rio

Continuiamo la discussione, anche qui. Perché il mondo delle startup serve all’Italia e al suo futuro e non può essere una nicchia separata dal resto del paese.

(*) Sotto uno dei tanti commenti provenienti dalla rete sulla utilizzabilità del blog su cui scrivo:

P.S. Alberto Onetti il sito del Corriere della Sera è scandaloso. Ero sul tuo post e continuava ad andare sulla home poi ritornava sul tuo post…avanti e indietro…mille volte…. Scrivi pure su Medium e tagga le persone chissà magari rendiamo il tutto un po’ più interattivo e forward looking

Io vivo a Pavia (quando non sono in transito). Ricordo che una mattina di qualche anno fa, finita la mia partita di tennis delle 7.30, mi ero fermato a fare colazione in un locale appena aperto, “Miccone”, in Borgo Ticino. “Ma lei è Alberto Onetti di Mind the Bridge?”. Questa è la domanda che mi ha fatto la persona dietro al banco mentre stavo ordinando un cappuccino. Disclaimer: non mi capita spesso e difatti mi ricordo l’episodio.

La persona dall’altra parte del banco era Giuseppe Dabbene, un ragazzo allora venticinquenne, che nel tempo ho seguito nelle sue vicende imprenditoriali che lo hanno portato dalla nebbiosa Pavia alla parimenti nebbiosa Londra dove si trova  tuttora.

Credo che sia interessante raccontare la storia di Giuseppe perché riassume bene lo spirito di chi è imprenditore, ossia di chi vive in una tensione continua tra il pensare in grande e la complessità della realizzazione dei propri progetti.

Giuseppe, cosa è il Miccone e come è nata questa avventura imprenditoriale?
Tutto è nato nel novembre 2013 quando io e la mia famiglia avevamo capito che il mondo del food in Italia stava cambiando e si stava sempre più ammodernando e specializzando.  La mia famiglia proveniva dal mondo del commercio italiano dal 1977, quel commercio fatto di gestione familiare che non rispecchiava le logiche aziendali moderne. Da quando ho iniziato questo cambiamento ho capito che bisognava circondarsi di esperti del settore food e costruire un team che creasse non un semplice locale, ma un vero e proprio brand.
Abbiamo quindi studiato la tradizione enogastronomica pavese e abbiamo capito che il Miccone rappresentava un simbolo per questo territorio. Il Miccone è infatti il pane della tradizione della provincia di Pavia. Abbiamo fatto sì che il Miccone fosse il core-business del progetto, attorno ad esso infatti abbiamo strutturato tutto il menù e l’offerta che proponiamo durante tutto l’arco della giornata.
Il Miccone viene tagliato in fette e da queste fette nascono i nostri “Micconi”, panini creati utilizzando per il 90% ingredienti del territorio come ad esempio salumi, formaggi e confetture tipiche, ma anche ingredienti che rispecchiano i trend del momento come ad esempio l’avocado, sempre abbinato a prodotti locali. Oltre che per gli ingredienti utilizzati, i “Micconi” sono particolari perché la fetta di pane Miccone viene piegata e da questa piega nasce il nostro logo ed il nostro motto “La piega di pane pavese”. I nostri Micconi vengono serviti con vino e birra artigianale dell’Oltrepò pavese.
All’interno del format Miccone troviamo anche la caffetteria che rispecchia la metodologia e le tecniche SCAA di specialty coffee. Tostiamo direttamente il caffè all’interno del negozio. Creiamo espressi e cappuccini che abbiniamo con la torta di pane fatta con il Miccone oppure utilizzando fette di Miccone insieme alle marmellate locali.
Tutto il format è stato creato per essere replicabile e scalabile, infatti tutto il menù è ingegnerizzato e rispecchia le logiche del food cost. Il controllo di gestione è inoltre affidato a un sistema di cassa dove 24h su 24h possiamo monitorare le performance del locale.

Miccone London

Come sono andati questi 3 anni a Pavia?
Fin dal primo giorno di apertura, il 5 Settembre 2014, l’attività è andata molto bene. In 3 anni abbiamo fatturato  oltre €650.000 e nell’ultimo anno abbiamo fatturato €50.000 in più rispetto al 2016. Considerando il mercato pavese di 70.000 abitanti, il cui 50% circa è sopra i 60 anni di età, penso che sia un ottimo risultato.
La vera difficoltà è quella di operare in una micro economia, in un periodo di crisi, dove la burocrazia ed il sistema molto spesso non sono dalla parte dell’imprenditore. Ne ho toccato con mano alla fine del 2016 dove alcuni membri del vecchio team non remavano più dalla parte dell’azienda a abbiamo rischiato di chiudere. Nessuno mi ha dato una mano e mi sono dovuto rialzare da solo, prendendo delle decisioni molto importanti.
Ogni piccolo errore è fatale per la sopravvivenza dell’azienda.
Applicare tale modello di successo in una realtà come Londra dove ci sono 10milioni di persone con molti fattori a vantaggio per l’imprenditore è molto stimolante e positivo per il progetto Miccone.

Perché Londra?
Londra è sempre stata una città che amavo fin da quando avevo 14 anni, nel 2015 ci sono ritornato e mi sono subito accorto che alcune tecniche utilizzate in molti locali, come ad esempio tostare il caffè all’interno del locale, noi a Pavia la facevamo da più di un anno. Dopo quel primo viaggio sono ritornato nel Novembre 2015 e sono rimasto per un mese per essere sicuro che ci sarebbe stato mercato anche per noi, ho analizzato molto le zone, altri format di food e da questa esperienza ho avuto un’ulteriore prova che anche per noi c’era la possibilità di avere mercato.
Oltre che da questi fattori mi sono reso subito conto che la burocrazia, la facilità di apertura della società, la pressione fiscale ridotta avrebbero senza dubbio agevolato l’apertura del format.
Nel febbraio del 2016 ho deciso quindi di trasferirmi definitivamente a Londra e cambiare per sempre la mia vita, quella della mia famiglia e anche quella del mio progetto.
Pur avendo poche conoscenze, nella prima settimana in cui mi sono trasferito ho trovato lavoro presso un Independent Coffee Shop. In quei mesi mi sono aperto a tutte le possibilità che Londra mi presentava e nell’aprile ho aperto il primo pop-up vicino Tower of London solo la sera per testare se il Miccone insieme a vini e birra artigianale avrebbero funzionato a Londra
Da questa esperienza che è durata un paio di mesi, ho capito che il Miccone sarebbe potuto piacere piacere non solo agli italiani presenti su Londra (500.000), ma soprattutto agli inglesi.
Ad agosto ho deciso di trasferire la nostra Ape Truck da Pavia a Londra all’interno del Mercato Metropolitano per continuare questa avventura. Il tutto ha avuto un riscontro positivo che ci ha portati poi a decidere di vendere l’ape e di concentrarci sull’apertura di punti vendita su Londra.

Langhi Miccone 2 Langhi Miccone

Perché l’Ape Truck non ha funzionato? Me la ricordo davanti all’ufficio ed era iconica…
Il problema principale dell’Ape Truck era l’assenza di spazio. Siamo tuttavia rimasti molto contenti perché grazie a questa esperienza abbiamo saputo ottimizzare le procedure di preparazione dei “Micconi” e dei taglieri. Tutto questo know-how è stato poi portato nel locale di Pavia con una riduzione delle tempistiche di attesa sul servizio e una maggiore armonia nella preparazione.
I problemi che abbiamo riscontrato in Italia sono stati sia di carattere burocratico (alcuni enti non sapevano nemmeno cosa fosse un Ape Truck) sia nella gestione degli eventi, il cui costo la maggior parte risultava essere molto costoso, senza nessuna garanzia di ritorno dell’investimento iniziale.
A Londra, invece, abbiamo capito che per il nostro format – che si basa soprattutto sull’alta qualità di tutti i nostri prodotti – lo street food non riusciva a trasmettere a 360° l’esperienza che si prova mangiando dentro un locale Miccone.
Dall’esperienza però sono nate nuove ricette di “Micconi” e abbiamo avuto un elevato numero di feedback positivi dai clienti inglesi in merito a tutti i prodotti che servivamo, dai “Micconi” al vino e birra dell’Oltrepò Pavese. Tutto questo ci ha dato la consapevolezza che il futuro del Miccone ha una sola strada: diventare grande.

Cosa altro hai imparato da questi anni a Londra che potrebbe essere utile per chi come te volesse avviare una attività lì?
In questi anni ho imparato che Londra è una città che offre tante possibilità di fare business e di conoscere nuove persone. Ti può portare in alto ma bisogna essere preparati. A chi pensa di venire qui in cerca di fortuna, sbaglia in partenza.
Se un imprenditore ha già un progetto minimamente collaudato in Italia, allora le strade per diventare grandi ci sono. Naturalmente bisogna allenarsi tutti i giorni e cogliere tutte le occasioni che si presentano.
La velocità con cui cambiano le cose qui è 10 volte superiore rispetto all’Italia. Avere un’azienda snella e facilmente modificabile per adattarsi al mercato e alle esigenze è la cosa migliore. Bisogna quindi pensare a mettersi continuamente in gioco e reinventarsi sempre.
La burocrazia è pari a 0: per una licenza di food ho aspettato 3 giorni e per aprire la società ho impiegato  1 giorno con una sterlina, il tutto on-line.

Raccontaci l’esperienza del crowdfunding.
Nell’agosto 2017 abbiamo deciso di intraprendere l’esperienza del crowdfunding: abbiamo quindi creato tutto il materiale necessario per presentarci online (video, foto etc.) e ci siamo divertiti molto nel farlo.
Abbiamo lanciato la campagna l’8 Dicembre 2017 raccogliendo in 30 giorni 86.000€, purtroppo non sufficienti a raggiungere il risultato che ci eravamo prefissati. Tutta questa esperienza ci ha portato però molta pubblicità e ha fatto conoscere al grande pubblico il nostro progetto oltre che la possibilità di interloquire con possibili investitori.

Miccone servito

Quali sono ora i progetti per il futuro?
Dopo l’avventura del crowdfunding ora siamo alla ricerca di partner finanziari che ci portino oltre che a capitali anche competenze per aprire il primo punto vendita a Londra e da lì scalare il progetto.
Il nostro sogno è diventare grandi all’estero con molte aperture sia a Londra, ma anche in altre capitali europee. Aprire il mercato online, con l’e-commerce. Poi tornare a investire in Italia, aprendo altri punti vendita, comprare alcuni produttori e far diventare lo store di Pavia il vero headquarter con uffici che si occupino di marketing ecc.
Negli Stati Uniti il fallimento è apprezzato, chi non ha mai toccato con mano il fondo e si è rialzato fatica a ricevere investimenti. Da noi è il contrario.
Io in qualche misura ho fallito, o meglio, alla fine del 2016 ci sono andato molto vicino. L’idea dell’Ape Truck non ha funzionato e il progetto di crowdfunding alla fine non ci ha portato le risorse necessarie.
Ma ho imparato e mi sono sempre rialzato e tutt’oggi continuo questo progetto. Voglio che questo progetto diventi grande e restituisca vantaggi all’Italia e alla mia Pavia, visto che la maggior parte dei fornitori ha base qui. Vorrei che fosse un esempio positivo di rivincita di un territorio che per molti decenni si è dimenticato del suo splendore e delle potenzialità che ha.

Ieri a Roma in occasione dello Startup Day organizzato dall’AGI abbiamo presentato i dati sull’Italia delle scaleup, ossia sui risultati visibili (leggasi imprese) che ad oggi l’ecosistema delle startup è stato in grado di produrre.

I dati prodotti nell’ambito di Startup Europe Partnership restituiscono una immagine impietosa del Bel Paese, che mostra un ritardo temo incolmabile nei confronti dei principali paesi europei e che è a rischio di sorpasso anche da parte di paesi più piccoli e con minore tradizione industriale del nostro. Corriamo un chiaro rischio di fuga degli imprenditori e delle startup, dopo aver subito per anni quella dei cervelli.

Vi lascio l’approfondimento dei dati e mi concentro su quanto emerso dal dibattito, moderato da Riccardo Luna, che ha seguito la presentazione del rapporto.

Al Tempio Adriano a Roma c’erano difatti tanti protagonisti di questo sistema startup, tanti amici e compagni di tante battaglie nel nome delle startup.

Tutti, come il sottoscritto, in qualche misura tanto frustrati quanto corresponsabili di questo fallimento.

Sì, come ha ben detto Massimiliano Magrini, non è stata una riunione sindacale del movimento startup perché non avrebbe avuto senso.

È stata una analisi collettiva di quanto di giusto non è stato fatto e di quanto si potrebbe ancora fare per far decollare un aereo affossato sulla pista.

È stato il riconoscimento del fallimento di anni di duro lavoro.

Fallimento nel non essere riusciti a spiegare, come ha ammesso Marco Bicocchi Pichi, che le startup non sono importanti per se stesse, ma per il paese.

E la prova di ciò è stata che il mondo della politica, invitato a questo incontro, era largamente assente.

Sorge il dubbio che tale assenza certifichi, come ha sottolineato Fausto Boni, l’evidente disinteresse del mondo della politica nei confronti di startup e innovazione. Probabile.

La realtà, meno digeribile da un mondo che ha costruito il proprio manifesto nella capacità di “pitchare” in modo chiaro cosa si vuole fare, è  la nostra incapacità di comunicare alla gente perché le startup sono importanti e a cosa servano. “Se manca una domanda dal paese per le startup, manca la sanzione politica per chi non se ne occupa”, ha detto, senza diplomazia, Antonio Palmieri – “E perché quindi sorprendersi se il mondo della politica non se ne occupa? Fate sentire la vostra voce in modo chiaro, se volete avere una opportunità che qualcuno vi ascolti”. Touché.

Che serve allora?

Una cosa: capitali dal pubblico. Qualche miliardo, come ha proposto Salvo Mizzi, non spiccioli. In questi anni abbiamo migliorato la cornice regolamentare ma manca il quadro. Non si può pensare di giocare con i bastoncini dello Shangai quando gli altri muovono una clave. E non c’è da vergognarsi nel chiederli, ha detto Mauro Del Rio.  Soldi sì, “ma non investiti a pioggia in una logica simil-democristiana, soldi puntati su pochi cavalli vincenti”, ha chiesto Davide Dattoli. Soldi da cui tutti quelli intorno al tavolo non devono trarre benefici. Chiedere investimenti pubblici e farsi pagare management fee per investirli o caricare fee per servizi è semplicemente non corretto e distrugge la fiducia, che è l’altro pezzo che è probabilmente venuto a mancare nel nostro ecosistema, come ha ricordato Gianluca Dettori. E la cosa suona strana visto che il mercato delle startup è costruito sulla fiducia.

Quindi ora o mai più. Perché il tempo, più che i capitali, è la vera risorsa scarsa. Solo così startup e innovazione da emergenza nazionale possono diventare una opportunità nazionale, come ha ricordato Marco Gay.

Altrimenti resteranno solo le buone intenzioni in un paese avviato sulla strada del declino.

Francesco Baschieri è stato uno dei nostri primi Alumni: l’ho incontrato per la prima volta a San Francisco nel 2010 quando la sua Spreaker, piattaforma per creare, distribuire e monetizzare podcast e programmi radio in diretta, era incubata nell’allora “Gym” (la fase embrionale del nostro quartier generale) di Mind the Bridge, al Pier 38.

Ne scrissi proprio su questo blog l’anno successivo.

Dover tornare su di lui 8 anni dopo per commentare l’acquisizione da parte di Voxnest, azienda con base a New York che offre soluzioni per podcasting professionale, non può quindi che farmi un immenso piacere. Oltre che dimostrare che l’impegno e la tenacia possono portare a grandi successi anche dopo diverso tempo. Perché fare startup è spesso un percorso ad ostacoli, non sempre lineare.

BaschieriMa torniamo a Francesco. Bolognese, 42 anni, un esordio professionale in Alstom Transport (multinazionale francese che si occupa di treni e impianti ferroviari) prima come progettista software e poi come Project Manager, passa in un’azienda di beni di consumo come Program Manager per poi diventare in breve tempo Direttore Operations presso uno degli stabilimenti. Nel 2007 lascia tutto e co-fonda Waymedia (2007) per poi cederla a un gruppo milanese quando fattura già un milione di euro. Infine la “follia” Spreaker e l’inizio di tutto un altro viaggio, che, passando dalla Silicon Valley e Berlino, lo porterà a New York.

Baschieri facebook

Francesco, cosa significa l’acquisizione da parte di Voxnext?
VoxNest è il risultato di un progetto imprenditoriale ambizioso per creare il più grosso marketplace al mondo di audio parlato (podcast). Di questo progetto Spreker è la piattaforma che porta in dote utenti, tecnologia e competenze.

Difatti tu rimani alla guida?
Sì, io sono il President e CEO e il team di Spreaker guiderà la società. Però portiamo a casa un sacco di competenze e contatti nel mondo media. Ad esempio nel board abbiamo Todd Larsen che è stato presidente di Dow Jones ed executive VP di Time Inc.​ E tra i nostri investitori ci sono figure importanti del media business (che per ora non si possono dire).​ In tutto per ora siamo una trentina di persone, ma stiamo crescendo velocemente.

Guardandoci indietro, come sei arrivato da Bologna a New York?
Attraverso quattro tappe.
La prima tappa è stata a San Francisco con voi di Mind the Bridge: lì è stato il mio primo contatto con gli ​Stati Uniti e ho portato a casa un modo diverso di concepire l’impresa ​ rispetto a quello che avevo imparato in Italia.​
La seconda tappa è stata Berlino: siamo tornati in ​Europa perché aveva più senso per ​lo stadio di sviluppo in cui eravamo. Abbiamo scelto Berlino perché volevamo stare in un hub ​internazionale, anche dopo l’esperienza di​ S​an Francisco e in Italia mancava una simile concentrazione​ di aziende, talento e capitali.​
La terza tappa è stata senza una sede. Abbiamo ​ scelto di diventare una azienda “liquida” spalmata su diverse sedi.​ Io per motivi personali sono tornato in Italia (Venezia) mentre il resto del team era sparso tra Spagna e Italia.
La quarta tappa è stata New York. Prima sono venuto io come testa di ponte e poi, in vista dell’acquisizione, ho spostato la parte commerciale e marketing, mentre in Italia e in Spagna rimane lo sviluppo secondo il modello della dual company che ben conosci. E il piano è di concentrare il grosso dello sviluppo della tecnologia in Italia.

Spreaker team

Come è il tuo rapporto con l’Italia?
Di affetto e riconoscenza, ma con il giusto equilibrio.
Un imprenditore ha un obbligo: quello di massimizzare le chance di successo della propria azienda. L’Italia non è detto che sia sempre il posto ideale ​per fare nascere e crescere una nuova realtà​.
​Se non lo è, allora bisogna rimboccarsi le maniche e andare dove è meglio per la tua azienda.
Poi, una volta trovata la propria strada, c’è spazio per aiutare il proprio paese. Però con un altro cappello. O meglio con il cappello in testa e non con il cappello in mano…

 

Fare startup e fare impresa in genere è difficile.

Perchè ti mette spesso (molto più di frequente di quello che sembri da fuori) in situazioni da cui è molto complicato uscire e trovare una soluzione.

Il tutto è aggravato dal fatto che queste situazioni – con le relative decisioni – vengono vissute in totale solitudine.

Perchè non si possono condividere in azienda (genererebbe un panico diffuso che renderebbe ulteriormente più difficile la soluzione).

E nessuno, al di fuori dell’imprenditore, ha tutti gli elementi per prendere la decisione, giusta o sbagliata che sia.

Quindi chiedere consiglio, anche quando possibile, non è realmente utile, se non per raccogliere prospettive diverse ed elementi di valutazione aggiuntivi.

Ma, alla fine, la scelta finale è solo tua.

Come dicono gli U2:

If I could, I’d make it alright, alright.
Nothing’s stopping you except what’s inside
I can help you, but it’s your fight, your fight.”

Quindi, non ti resta che “Get Out of your own way“.

È un po’ che siamo silenti e i nostri 24 lettori (uno in meno del Manzoni, giusto per rispetto) potrebbero essersi chiesti dove fossimo finiti.

Siamo stati sotto traccia anche perché stavamo lavorando a qualcosa che consideriamo importante.

“Chi innova non può rimanere uguale a se stesso”, siamo soliti ripetere. E questa è una regola che prendiamo seriamente.

Subito dopo il lancio della piattaforma Startup Europe Partnership al World Economic Forum di Davos (nel lontano gennaio 2014, qui il link al post di annuncio) ci siamo chiesti quale fosse il passo successivo.

E, trascorsi quasi tre anni,  abbiamo capito che per avere un reale impatto è necessario fare un ulteriore salto di rilevanza e di scala.

 

Rilevanza

Se qualche anno fa lavorare con le startup era considerato dalle aziende qualcosa di nuovo, oggi è diventato prassi comune. Un nostro recente studio mostra come la quasi totalità delle principali aziende europee abbiano programmi che coinvolgono startup. Ma non basta. La stessa ricerca evidenzia come siano veramente poche le aziende che concretamente lavorano con le startup (dove per “concretamente” intendiamo accordi commerciali e partnership strategiche, non iniziative con finalità principalmente di marketing). In altre parole:

Sempre più aziende parlano di startup, ma poche ci lavorano concretamente.

Nella nostra esperienza di lavoro con alcune delle ultime abbiamo verificato come i risultati arrivino quando c’è un commitment serio dal vertice. Solo in questo modo lavorare con le startup diventa “everyday job” per l’organizzazione.

Per questo motivo abbiamo lavorato per aumentare la visibilità sul tema startup ai vertici delle aziende. I “SEP Europe’s Corporate Startup Stars Awards”, di cui abbiamo organizzato la seconda edizione lo scorso 18 dicembre a Brussels, sono un esempio al riguardo. Al di là dell’obiettivo di premiare e dare un giusto riconoscimento a chi sta facendo bene, è stata l’occasione per riunire per mezza giornata i vertici di 36 aziende e discutere circa priorità e linee di azione. Ai massimi livelli, che sono poi quelli che contano per fare succedere le cose.

Scala

Il lavoro fatto con i Matching Event di Startup Europe Partnership in questi tre anni ha permesso di “sporcarci le mani” e sperimentare vari format. Avere organizzato oltre 20 matching event internazionali, coinvolgendo oltre 500 startup e 50 aziende da tutta Europa, ci ha consentito di capire ne profondo cosa funzioni e soprattutto cosa non funzioni. Ma soprattutto abbiamo accumulato una quantità importante di dati sui reali tassi di successo nell’interazione tra imprese e startup – che si attestano tra il 2 e il 5% – e sui tempi richiesti per realizzarli – tra i 6 e i 18 mesi, mediamente.

I dati dicono che degli incontri tra startup e impresa meno di uno su venti si traduce in risultati.
E, quando succede, ci vuole oltre un anno per trovare un accordo.

Perciò, oltre a lavorare sulle “best practice” per produrre più risultati (qui una analisi), ci siamo resi conto che dovevamo aumentare i volumi. Di qui, il format rinnovato di Startup Europe Partnership per il 2018 e 2019 (lo abbiamo chiamato 2.0 per marcare il cambiamento) che, tra le altre cose, ruoterà intorno a momenti di aggregazione più ampi e intensi. 4 grandi Scaleup Summit durante i quali riunire, rigorosamente a porte chiuse, il meglio del mondo delle scaleup (le startup early stage non sono generalmente un buon match per le imprese), delle imprese e della finanza (circa 150 entità in tutto).

I Summit avranno due caratteristiche:

  • Saranno ospitati presso le grandi borse europee che sono l’altro grande anello mancante (i dati ci dicono che solo il 2% delle scaleup europee ha accesso al canale di borsa e che le grandi IPO avvengono oltre oceano).
  • Avranno dimensione internazionale, coinvolgendo scaleup, imprese e investitori da tutta Europa. Perché uno dei limiti principali di molte iniziative per startup è il loro carattere locale o nazionale, all’interno di un mondo molto più vasto.

La dimensione naturale del mondo delle startup è quella internazionale.
Iniziative di respiro locale non hanno molto senso.

Questo è quanto ci ha tenuto impegnati nell’ultimo periodo. Questo è quanto abbiamo annunciato a Brussels il 18 dicembre alla presenza del mondo delle imprese e della Commissione Europea. Alla fine i risultati – e solo quelli – ci diranno se stiamo procedendo nella giusta direzione.

La buona notizia per l’Italia è che il primo Summit sarà organizzato presso la Borsa Italiana il 15 e 16 marzo prossimi. Questo è il nostro piccolo regalo di inizio anno per il nostro Paese in cui continuiamo a credere, come dieci anni fa quando il ponte di Mind the Bridge ha visto la luce.

Alberto Onetti e Marco Marinucci