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Mara Venuto, La lingua della città

Posted on: 01/11/2021

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Mara Venuto, La lingua della città

Delta 3 Edizioni, Avellino 2021

di Sara Notaristefano

Dolore. Rabbia. Amarezza. Sono solo alcune delle emozioni che permeano La lingua della città, opera segnalata al Premio di Poesia Contemporanea Bologna in Lettere del 2020. La raccolta poetica della tarantina Mara Venuto non è stata realizzata secondo un disegno prestabilito ma è sbocciata gradualmente, componimento dopo componimento, ciascuno dei quali costituisce una tappa, anzi, una sorta di pietra d’inciampo di un percorso dolente e intenso, iniziato il 25 gennaio 2019 con la composizione della poesia dedicata a Giorgio Di Ponzio, stroncato, proprio quel giorno, da un tumore all’età di quindici anni.

Giorgio è diventato uno dei simboli della strage degli innocenti in corso a Taranto; non a caso, proprio in questi giorni, l’artista partenopeo Jorit ha realizzato, su un palazzo, un murale che ne riproduce il viso sorridente. Molte poesie di Venuto sono dedicate a bambini che non ci sono più, “colpevoli” di essere nati in una città dove il diritto alla salute e quello al lavoro sono in conflitto da anni, vittime sacrificali sull’altare del profitto.

Taranto non viene mai citata esplicitamente nei versi, se non attraverso l’iperonimo “città”, in un anonimato eloquente che si fa espressione dell’oblio istituzionale al quale è abbandonata; eppure, nella raccolta, la Città dei due mari non potrebbe essere più presente e più credibile grazie ad un realismo che, anziché colpire con la violenza di un pugno, restituisce con la fedeltà di una fotografia una desolazione che non richiede ulteriore esacerbazione. La “colpa” che Taranto sembra pagare è quella della viltà, una viltà che l’io lirico non si limita a rintracciare nella realtà circostante ma riconosce in se stesso («Ho contezza della mia viltà […] Come me è questa terra, l’ombra ci copre e cadono gli ardori»), creando un gioco di specchi che non frammenta la frustrazione dell’individuo ma la moltiplica nella collettività. La viltà, la rinuncia alla ribellione, la perduta fede nel cambiamento, non riescono né a proteggere la bellezza violata né a generarne una nuova. L’azione umana viene colta da Venuto nel suo potere distruttivo e nella sua incapacità di generare bellezza, al punto che l’unica traccia di essa si manifesta negli sparuti sprazzi che la Natura riesce a strappare alla voracità antropica: a Taranto non c’è «bellezza da dimostrare», ma solo «quattro alberi in croce a ricordare la volontà di Dio», che, sparuti eppure eroici, trafiggono cemento e aria mortifera. Di fronte ad un orizzonte di morte («I morti fanno paura, sono l’ombra dei dimenticati /riposano dove non sentono e non sono uditi, / lo spazio della terra è stretto, quanto il braccio di un bambino nudo»), sembra impossibile «opporsi al senso di inutile, / sotto il padrone che dice grazia o morte») e muore ogni volontà, anche quella di ascoltare l’urlo di dolore di Taranto. Per una sorta di autodifesa da una lingua che è canto d’angoscia, atto d’accusa che terrorizza («fa paura / ascoltare il suono dell’abisso / il buio nella gola che inghiotte»), l’io lirico si rifiuta di imparare la lingua della città e ne deriva un’ineluttabile afasia («Non c’è verso che possa unirmi alla città / in sillabe che finiscono. Inutile esercizio / le poche parole della mia vigliaccheria, / incapaci a dire ciò che si dovrebbe, /un respiro senza affanno»). A tale incapacità comunicativa si devono i versi spezzati come un singhiozzo (non a caso, numerosi sono gli enjambements); tuttavia essi non rinunciano a dipingere scorci della città: nel porto, nei vicoli, sui portoni, oltre le finestre, i versi cercano l’identità che la cittadinanza ha perso o che forse si è lasciata strappare («Anni ci sono dovuti /per sentirci interi, e non eravamo più noi /eravamo altri»); la cercano nel disperato tentativo di recuperarne i resti, per poterla ricostruire. Infatti, anche se Mara Venuto rinuncia ad aspri toni di denuncia che avrebbero fatto riecheggiare quelli dell’inconcludente e vile dibattito politico sull’acciaieria, la lettura di La lingua della città riesce a creare una crepa nel muro di indifferenza erto attorno a Taranto. Il lettore può scorgere attraverso il porto, i vicoli, i portoni, le finestre, una speranza residuale: allora quel noi finale potrebbe tradursi nel recupero del senso di appartenenza ad una comunità, cosciente di se stessa e del patrimonio condiviso, per quanto esso sia stato depredato; quel noi finale dovrebbe e potrebbe suggerire una conclusione diversa di una storia che sembra già scritta. Noi possiamo e dobbiamo essere gli unici autori e le uniche autrici della nostra storia, riscrivendola attraverso una lingua recuperata, rinnovata, capace di trasformare l’angoscia e la conseguente viltà in coraggio. Una lingua, insomma, imparata e condivisa da una comunità capace di ascoltare e incarnare la voce di una Taranto fedele alle proprie radici illustri, di una Taranto finalmente libera dal giogo di un’imposta e nefasta vocazione industriale.

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