Davide Rondoni, Il buio e l’ibisco
Posted on: 25/04/2018
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LA FIASCA ROTTA DICE: NON MI AVETE FATTO NIENTE.
“IL BUIO E L’IBISCO”, IL NUOVO LIBRO DI DAVIDE RONDONI
In occasione di un «aperitivo con Davide Rondoni» domenica 29 aprile, ore 11,30, presso la libreria di poesia Millelibri (Bari, via dei Mille, 16) in cui l’autore leggerà “Il buio e l’ibisco. Parole per la fiasca rotta del Maestro di Forlì” (CartaCanta, Forlì 2017), pubblichiamo una nota interpretativa di Daniele Maria Pegorari.
Uno dei libri di Rondoni che più ho amato è quel Compianto, vita (Marietti, Genova-Milano 2004), ispirato a un suggestivo gruppo marmoreo in terracotta, rappresentante la deposizione di Cristo, opera di Niccolò dell’Arca (noto anche come Niccolò da Bari, 1435 ca.-1494) e conservato nel centro di Bologna, nella Chiesa di Santa Maria della Vita. Il poeta romagnolo torna oggi a dedicare i suoi versi a un’opera d’arte, una misteriosa e anonima natura morta dipinta probabilmente fra il 1615 e il 1620 ed esposta nella Pinacoteca civica dei Musei San Domenico a Forlì. Ci sono almeno un paio di analogie fra le due intense operette ‘d’occasione’, per così dire, di Rondoni: la prima è che entrambe le opere d’arte paiono custodire il segreto di un dolore che la forma sa esprimere con forza eppure rinvia a una zona perennemente esplorabile, mai acquisita una volta per tutte. La scena sacra di Niccolò, quasi sulle soglie del cosiddetto Rinascimento (una nozione culturale, in fondo, piuttosto ideologica e fuorviante), vede alcune delle sei figure contorcersi nell’indicibilità del lutto, resistendo all’imperativo dell’armonia e della sublimazione, che sarà invece il tratto fondamentale del secolo che verrà; il fiasco dal collo malamente spezzato e dallo spesso cordame come impazzito e ingovernabile pretende che si immagini un passato di violenza o di errore (l’oggetto sarà stato scagliato o sarà sbadatamente caduto di mano) che sfugge al controllo accademico della composizione da studio.
La seconda analogia fra i due libri consiste nella coerente tensione del poeta a tenersi lontano da ogni descrittivismo petrarcheggiante, proprio perché le due figurazioni che ha davanti lo inquietano e lo sommuovono a cercare corrispondenze con la storia a noi più vicina: in Compianto, vita era stata la sovrapposizione d’immagine con le zone buie delle metropoli dove si consumano crimini o con le «sale d’aspetto» (chissà poi se di stazioni o di ospedali, le une e altre teatro di apprensioni e solitudini immedicabili) o con le città orientali da decenni martoriate dalle guerre; ne Il buio e l’ibisco è la violenza sulle donne (di ogni genere, compresi il tradimento, l’abbandono e gli incidenti): «e quante fiasche, o donne o / vite rompiamo, spezziamo / mia bocca maledetta piena di baci / piena di parole» (p. 23).
Si tratta solo di brevi accenni, essi stessi vibranti di interrogativi e di mistero, poiché lo spazio della loro significatività dev’essere disciplinatamente analogo a quello che l’anonimo Maestro di Forlì ha destinato all’oggetto ritratto, frammento di una storia in qualche misura violenta, isolato dal contesto e stagliato sul «buio» pesto e metafisico del fondale. Così la lingua di Rondoni è qui asintattica, sghemba, frammentaria, incline alla ripetizione ossessiva: «la fiasca, la rotta / la vecchia corda […]» (p. 15), «la fiasca, la rotta» (p. 16), «La fiasca / chi l’ha rotta» (p. 17), «in quella bocca rotta / di fiasca» (p. 19), «fiasca rotta» (p. 20), «[…] il collo, il collo // la fiasca rotta, la fiasca rotta» (p. 22), «– perché non avete dipinto e lasciato solo la rotta / fiasca […] / qui è tutto / solo così / buio da rompere la testa, la fiasca» (p. 25), «in tutte le bottiglie bevute e / scheggiate o tutte le cose e donne e fiasche ferite» (p. 28).
Ma l’interrogazione e la relativa coazione a ripetere riguardano anche l’altro aspetto straordinario di quel quadro (e di queste poesie): i sei tipi di fiori (i gladioli bianchi e quelli rossi agli estremi laterali, le bianche stelle di Betlemme, l’ibisco celeste e quello giallo che svettano al centro, infine i gigli gialli in basso), sei come le statue di Niccolò, sparuti e variegati come in una sorta di arca di Noè della botanica eppure misteriosamente ‘totali’ nella proposta dei colori primari e del bianco che li contiene, come a rinfacciare al «buio» la sua prossima sconfitta, come se «la fiasca, detto così, al femminile / la fiasca, curva come / una donna» (p. 16), sussurrasse a chi l’ha spezzata: ‘non mi avete fatto niente’… E allora l’investigazione insistita del poeta si sposta su chi possa aver compiuto quel gesto di pietà o di genio: «ma i fiori / il buio // i fiori nel buio // chi li ha messi / chi li ha lasciati / lì…» (p. 17), «– chi li ha messi? lì…» (p. 20), «Ma chi li ha messi lì? / Ibisco azzurro, bianco ibisco / controsenso totale della notte, dell’ira cupa» (p. 21), «[…] chi / ha messo // chi si è permesso» (p. 23), «infilarli nella bocca avvelenata // chi ha osato // chi era?» (p. 24), «[…] di chi / il polso chiaro / il lento gesto di infilare / lì, nella bocca spezzata» (p. 26), «dove chissà chi / […] fa il gesto sperduto, preciso / di mettere i fiori» (p. 28). Secondo una modalità stilistica già ben consolidata in Rondoni, le interrogative esplicite o implicite e le sospensioni, di matrice luziana, certo, ma più dure, più inquiete, come se alla domanda filosofica del maestro si accompagnasse un più marcato senso di colpa, un coinvolgimento in prima persona nell’errore quotidiano, sono il tratto unificante di questo breve e pur intensissimo canzoniere, della sua «mormorazione» (Nota dell’autore, p. 7) alla ricerca del segno, del dettaglio, del particolare che riscatti la vita dall’insignificanza e squarci il buio.


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