Adele Desideri, La figlia della memoria
Posted on: 11/03/2017
Adele Desideri, La figlia della memoria
Moretti & Vitali, Bergamo, 2016, 168 pp
di Marta Lentini
In ogni atto mnemonico esiste un bisogno di rimettere insieme frammenti di un dialogo con noi stessi, affinché i fili immaginari di un passato, sentito come labile e doloroso, si annodino in qualche modo al senso del presente e al nostro appartenervi. La figlia della memoria è un libro nel quale l’autrice interroga il passato nell’intento di ricomporre la propria corporeità profanata, per conquistare la coscienza di quel confine attraverso il quale l’ineffabile si riconosce violato dalla percezione di un’altra coscienza. Da questo incontro/scontro di percezioni deriva tutto il futuro: l’io percepisce il porsi del tu come alterità in grado di rispettarlo oppure di annientarlo e violentarlo. Sullo sfondo di una Torino elegante si fa strada, pur se evocato e descritto attraverso una leggerezza linguistica inscindibile dalle radici toscane dell’autrice, l’affiorare, in un senso di buio sempre più penetrante e invasivo, dell’intuizione, già presente nelle evanescenze memoriche dell’infanzia, di un tentato incesto subito da parte dello zio Zeno. Il buio è solo alleviato dal profumo delle giornate spensierate vissute a Valvole, in campagna, dove, pur nella leggera allegrezza infantile, si affaccia l’ombra di una inaspettata e drammatica scoperta della verità latente negli umani destini: la disuguaglianza tra uomo e donna e la prima intimità sono vissute come una crescita amara nella consapevolezza dell’essere.
Con una seducente miscela di garbo e ironia, e un linguaggio che si fa contaminare da espressioni dialettali come da immagini mistiche, Adele Desideri, poetessa, saggista e critica letteraria, compone uno spaccato dell’Italia degli anni che vanno dalla fine della seconda guerra mondiale al sequestro Moro, e affida così ad Andreina, protagonista del suo primo romanzo, il compito di scandagliare il tempo di un’adolescenza non immune da sensazioni d’impudicizia, dove monta un irrelato senso di colpa, che perciò, non potendo essere decodificato, viene traslato, quasi transfert, sulla bambola prediletta. Oggetto transazionale per eccellenza, Poldina assurge a simulacro di purezza e innocenza nella risposta di Andreina alla vita, nel tentativo di salvare l’anelito di pace interiore che sente negato per sempre. ‹‹Poldina era la bambina che avrei voluto essere. Era l’innocenza, l’istinto della maternità, il latte buono, il sonno tranquillo, il vestito giusto, il tepore, il calore, il fiocco rosa, l’ordine delle cose, l’intelligenza della realtà›› (pag.51) Più tardi, le camminate solitarie nella natura ispida e selvaggia di Porto Raul, in Sardegna e le ore interminabili di forzato eremitaggio giovanile lasceranno il posto a una ricerca spasmodica dell’amore, vissuto come esigenza vitale, ma poi temuto, e soprattutto conosciuto, sotto forma di lacerazione perenne.
In un crescendo di sentimenti contrastanti, tipici dell’adolescenza e difficilmente identificabili, la scrittura e la lettura fungeranno da catarsi necessaria in Andreina ‹‹… la malattia di scrivere e di creare, l’occhio patologico che vede troppo, l’infarto nel cuore che punge››. (Pag.72) L’affrancarsi dall’ibrida forma adolescenziale diventerà epoca di perdizioni, cui la protagonista andrà incontro in modo ingenuo, con la disarmante tenerezza di chi cerca conferme esistenziali che diano sicurezza al proprio divenire, e che invece regolarmente si smentiscono all’apparire della verità quotidiana, rigettandola nei flutti di una solitudine sempre più profonda. Da qui l’incontro col primo amore, definito ‹‹obliquo per natura››, e poi col secondo: due incontri in cui ambedue le figure maschili, in un vissuto fatto di banale routine e di assenza di slanci, si configurano nel segno dell’incapacità di donarsi e di corrispondere alla tenerezza della giovane Andreina. Alla fine la sua perdita di sicurezze, che si rivelano fragili e stentate, dilagherà nel vuoto illusoriamente colmato dalla assunzione di droga, per culminare con un tentativo di suicidio, per negare quella vita già sacrificata nell’impossibile incontro con l’Assoluto.
In questa discesa nel fango, raccontata con poetica e filosofica lucidità, e nel baratro scavato consequenzialmente dalla sofferenza, si staglia la luce balenante e incerta di un domani riscattabile solo attraverso la carità, virtù mai ricevuta da una madre assente nonché depressa. L’ultima tappa di questa via crucis s’intitola ‹‹l’amore che resiste nell’eternità›› e, riprendendo le parole di Edith Stein, celebra una sola via d’uscita attraverso una scelta drastica. L’anima esausta, disillusa dal mondo, ritroverà, dopo averla inseguita con straziante urgenza, una limpidezza mai raggiunta: il perdono, la pace salvifica, l’assenza di male nel ristoro della preghiera.
‹‹Ho ottenuto quello che volevo.
Ritirarmi dal mondo.
Ho trovato quello che desideravo.
L’Amore.
L’Amore che, solo, resiste nell’eternità.››

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