di Corriere

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Telecom Italia è l’operatore telefonico più attraente in Europa, e quindi la preda più ambita, titola Les Echos oggi. Un’eterna preda. E la Francia sembrerebbe avvantaggiata, considerato che nell’azionariato di Telecom ci sono due soci francesi di spicco: il gruppo Vivendi di Vincent Bolloré e Xavier Niel, patron di Iliad-Free. Ma all’orizzonte si è profilata anche JP Morgan che dichiara, a sorpresa, di possedere in Telecom Italia una quota di oltre il 10%.

L’operatore francese Altice di Patrick Drahi si era detto interessato in passato, ma dopo l’acquisizione di Sfr ha deciso di acquietarsi per un po’, mentre il Ceo di Orange, Stéphane Richard, il primo a dichiarare che l’incumbent italiano è una ghiotta opportunità, alle parole non ha fatto seguire i fatti. Telecom dunque come la Bella Addormentata in attesa del Principe che la risvegli? Wind e 3 sono in procinto di fondersi e quindi gli attori sul mercato scendono e per Telecom Italia, se si sbriga, questo significa meno concorrenza e possibilità di aumentare prezzi, ricavi e margini.

A frenare, tuttavia, è il fatto che il mercato italiano, scrive il quotidiano francese, non è maturo in termini di infrastrutture, soprattutto nell’implementazione della fibra e del 4G. Infatti solo il 21% degli internauti utilizzano la banda ultra larga, ponendo l’Italia agli ultimi posti nella classifica Ookla. Inoltre, occorre considerare la golden share del governo italiano nel caso del cambiamento del controllo azionario in Telecom Italia: soci finanziari non sarebbero ben visti, Roma preferisce soci industriali.

A quindici anni dalla sua privatizzazione (fatta molto male, aggiungiamo noi), Telecom Italia ha vissuto una storia azionaria piuttosto caotica, tra assalti vari e continui cambiamenti al comando che hanno impedito di tessere una vera strategia del gruppo nel tempo. Oggi Telecom deve decidere sulla questione brasiliana, asset cruciale: cedere o no Tim Brasil potrebbe fruttarle abbastanza ossigeno per i suoi investimenti domestici nella fibra ma contemporaneamente questo potrebbe farla diventare una preda più facile in Europa, affermano gli analisti.

Ed ora l’operatore italiano si gioca di nuovo il suo destino nelle prossime settimane: il 15 dicembre ci sarà l’assemblea generale degli azionisti che dovrà decidere, oltre che sulla conversione delle azioni a risparmio, sull’accoglimento o meno delle richieste di Vivendi sull’allargamento del board e l’inserimento di quattro suoi rappresentanti di spicco, assumendo in questo caso anche un ruolo decisionale.

Nei piani di Telecom per ora ci sono investimenti per 10 miliardi di euro in tre anni per Internet ad alta velocità, di cui 3 miliardi per la sola fibra e il resto per il 4G, ma se non vuole farsi detronizzare in Italia dalla nuova entità che nascerà da Wind e 3 deve sbrigarsi. Per questo le questioni azionarie non dovranno incidere sulle strategie già adottate.

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Pressata dai concorrenti e dai regolatori – Antitrust e Agcom – Telecom Italia introduce un nuovo modello organizzativo che dovrebbe rendere più efficaci, rapide e trasparenti l’attivazione e la manutenzione dei servizi all’ingrosso venduti ai competitor. Riducendo il clima di litigiosità permanente che caratterizza le telecomunicazioni nel nostro Paese.

La decisione di Telecom potrebbe avere conseguenze positive sul mercato interno. Ci si augura infatti che contribuisca ad accelerare i tempi di apertura di nuove linee e d’intervento sui guasti, che tanto spesso sollevano le lamentele degli utenti, gettando un discredito generalizzato su tutti gli operatori.

L’iniziativa di Telecom Italia si propone di rafforzare la cosiddetta “parità d’accesso” alla rete fissa tra tutti i player: Fastweb, Wind e la stessa Telecom. I concorrenti, per dare i servizi ai propri abbonati, devono infatti, prima, acquistarli a loro volta all’ingrosso dall’ex monopolista: si trovano quindi a dipendere dalle procedure adottate da quest’ultimo.

Ecco perché chiedono che Telecom Italia pratichi loro le stesse condizioni che riserva a se stessa, cioè alle proprie divisioni commerciali. Se questa circostanza viene a mancare, se ad esempio il cliente di Telecom ottiene una linea Adsl o la riparazione di un guasto più velocemente di quello di Wind, la competizione subisce un danno. E anche gli utenti.

Finora, in Telecom, questo compito delicato era svolto da due funzioni aziendali: Open Access (che gestisce l’intera rete) e National Wholesale Services (Servizi nazionali all’ingrosso), che affitta la rete ai concorrenti. D’ora in poi, ecco la novità, le due strutture saranno gerarchicamente dipendenti dallo stesso responsabile, Stefano Ciurli, che riporterà all’amministratore delegato Marco Patuano.

Il cambiamento è il primo passo di un percorso più lungo e articolato verso la parità d’accesso: un progetto, da realizzare nell’arco di due anni, in cui Telecom Italia ha annunciato di voler investire oltre 120 milioni di euro.

La decisione nasce dopo un periodo di forti contenziosi con le authority e i concorrenti, che accusano il primo gestore di “discriminazioni” nell’offerta di servizi sottoposti a regolamentazione. E’ questo il motivo che, nel 2013, ha procurato a Telecom una multa da 103 milioni di euro da parte dell’Antitrust. A cui è seguita, lo scorso luglio, l’apertura di un nuovo procedimento, tuttora in corso: l’autorità presieduta da Giovanni Pitruzzella ritiene infatti che, nei due anni, i comportamenti dell’ex monopolista non siano cambiati e giudica l’azienda “inottemperante” rispetto alla delibera con cui era stata sanzionata.

Sul progetto di Telecom Italia, lanciato con il fine di ridurre il rischio di nuove multe milionarie, il presidente dell’Agcom Angelo Mario Cardani ha già espresso un giudizio positivo: “Va nella direzione auspicata dall’Autorità”.

Un passo avanti, si ragiona cautamente in Fastweb, perché, in caso di contestazioni, essendo unificata la competenza, diventa più difficile il palleggio di responsabilità tra i vertici delle due funzioni aziendali, come accadeva prima. Anche se l’innovazione, si aggiunge, resta più di forma che di sostanza.

E la sostanza – in questo come in altri casi – è la qualità dei servizi resi ai consumatori, di cui i tempi di attivazione e riparazione sono elementi essenziali. Perché possa migliorare, dicono i concorrenti di Telecom, la qualità deve diventare un fattore competitivo. E i servizi di attivazione e riparazione devono essere sganciati da Telecom Italia (oggi unica responsabile) e affidati ad aziende terze, che svolgano quel compito per tutti.

In questa direzione va anche la delibera emanata dall’Agcom il 5 novembre scorso, in cui si afferma che l’”esternalizzazione” è una misura chiave, da introdurre a beneficio degli utenti. Per vederla realizzata, bisognerà aspettare qualche mese, necessario a Telecom Italia, proprietaria della rete d’accesso, per fare la sua proposta. Si attende dunque la risposta dell’operatore storico: sollecitato, anche in questo caso, dal timore di nuovi tipi di penali, attualmente allo studio.

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L’ultimo rapporto It Media Consulting sulla televisione in Europa, che sarà presentato a dicembre, contiene una conferma e due sorprese. Tra queste ultime – notiamo – la principale non riguarda gli operatori televisivi propriamente detti.

Ma partiamo dalla fotografia generale: nel 2014 il mercato del piccolo schermo è cresciuto dell’1,6%, salendo a quota 97 miliardi di euro. Tra i vari comparti, la pubblicità è quella che vede aumentare di più i suoi fatturati: +2,8%, cioè 31,2 miliardi. La prima sorpresa è che i ricavi da pay-tv, la fetta più grossa della torta (43,8 miliardi), rallentano la corsa e crescono del solo 0,6%.

La conferma è il boom del video online, che spinge i nuovi operatori come Netflix, dilagante in Europa e agli esordi in Italia. Gli operatori consolidati di pay-tv come Sky sono dunque alle prese con la competizione dei broadcaster tradizionali e agguerriti come Mediaset, di quelli nuovi provenienti dall’ipermondo web e di un “nuovissimo” tipo di avversari.

In verità – ecco la seconda e principale sorpresa – si tratta di un tipo di concorrente piuttosto vecchio, se guardiamo l’anagrafe, però costretto a reinventarsi dall’evoluzione della tecnologia, dei mercati e della concorrenza. Sono gli operatori di telecomunicazioni, la cui ripresa d’iniziativa costituisce la vera novità del momento. Il fenomeno è a uno stadio avanzato in alcuni Paesi, in particolare Spagna e Regno Unito. In Spagna i player come Telefonica, Vodafone, Orange e Jazztel si spartiscono il 90% del mercato della pay-tv.

Ancora più profonda e radicale la trasformazione del mercato britannico, dove quasi non c’è più differenza tra aziende telefoniche e aziende televisive. Il Regno Unito è diventato il più grande e dinamico mercato pubblicitario d’Europa: dal 2012 aumenta del 4% l’anno grazie al più ampio ventaglio di offerta del continente, dal mobile advertising al video on demand ai canali digitali di notizie. La sola pubblicità online cresce al tasso record del 17,5% e si appresta a superare la metà del fatturato pubblicitario complessivo, caso unico in Europa.

I nuovi sviluppi della banda ultralarga fissa e del 4G mobile, uniti al calo dei ricavi tradizionali da voce e dati, spingono le telco a entrare nella nuova arena, a consolidarsi via fusioni, acquisizioni, accordi, e a raggiungere la massa critica necessaria a sostenere gli investimenti in reti e l’acquisto dei contenuti. L’obiettivo è dare ai clienti il quadruple play, il pacchetto di servizi che va dal telefono ai dati, dalla connessione Internet alla televisione. In ritardo, ma non troppo, è il nostro Paese, in cui operano due grandi pay-tv e Telecom Italia ha stretto accordi sia con Mediaset che con Sky che con Netflix ma con un impegno finanziario inferiore e un ruolo più distaccato rispetto ai suoi pari d’Europa.

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Per il governo non è possibile “ipotizzare il controllo integrale da parte di un operatore integrato su tutta la nuova rete sovvenzionata con aiuti pubblici”. E’ una clausola comparsa a sorpresa, con tante altre modifiche, nel nuovo piano banda ultra larga, e segnalata, in un articolo di Alessandro Longo, dalla newsletter specializzata CorCom, diretta da Gildo Campesato.

La clausola è chiara. Il solo operatore integrato in banda ultra larga è Telecom Italia, poiché fa offerte all’ingrosso (cioè affitta la rete agli altri operatori) e al dettaglio, ossìa al pubblico. E’ anche il solo operatore che ha partecipato a tutte le gare per la banda ultra larga finora indette in Italia, nel Mezzogiorno, e quindi le ha vinte tutte.

Quella clausola vorrebbe insomma evitare che Telecom Italia sia l’unica a vedersi assegnati i finanziamenti pubblici previsti dal piano. Il suo effetto è quello di spingere verso la creazione di una società delle reti o di un operatore come Metroweb (che fa solo business all’ingrosso).

Ma è anche un modo per sostenere un’idea che sembrava tramontata con le polemiche della scorsa settimana, cioè la nascita di Ring, la società pubblica con cui realizzare la nuova rete (ipotesi inclusa in un documento peraltro mai arrivato alla fase dell’ufficialità). 

Non è chiaro però come il governo (nella fattispecie la società Infratel) possa tradurre la clausola nelle future gare con i 6 miliardi di euro dei fondi 2014-2020. Sembrerebbe impraticabile, in qualsiasi normativa, escludere un operatore da una gara solo perché ha vinto le altre.

Il piano giustifica questa presa di posizione con l’idea che la normativa europea vede di cattivo occhio gli “operatori integrati. E’ vero che per Bruxelles sarebbe preferibile il successo, nelle gare, di un operatore non integrato, ovvero che si limita ad affittare a tutti la propria rete; l’idea è infatti che questa figura possa generare più concorrenza a valle, tra i molti operatori retail, rispetto a un operatore integrato.

Di fatto, finora, le gare banda ultra larga e banda larga sono state formulate dando un punteggio maggiore a operatori non integrati. Forse le nuove gare si limiteranno a seguire questa formula e la clausola resterà lettera morta.

Un’altra novità che potrebbe non piacere a Telecom Italia è la scomparsa della quantificazione dei voucher a incentivo della domanda. Nel testo originario (andato in consultazione) non c’era una cifra, poi comparsa in quello pubblicato martedì: 1,7 miliardi di euro. Adesso il testo è di nuovo generico. La quantificazione dei voucher servirebbe a puntellare il valore degli asset in rame Telecom nel momento in cui sarà prevista la migrazione alla fibra ottica.

Al momento non è prevedere se le risorse in gioco siano comunque tali da permettere al governo di ritagliare una cifra adeguata per i voucher in un secondo momento. Le ultime modifiche al piano fanno pensare che le polemiche sulla governance della rete siano tutt’altro che sopite.

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La multa di 5 milioni di euro – con cui l’Autorità Antitrust ha punito le principali compagnie di telecomunicazione mobile (Telecom Italia, Vodafone, Wind, H3G) per pratiche commerciali scorrette nei servizi premium utilizzati via internet da dispositivi mobili – è un fatto importante anche al di là dell’entità della sanzione, che pure è rilevante.

Ricordiamo che, per Telecom e H3G, l’ammenda è di 1,75 milioni di euro ciascuno, mentre per Vodafone e Wind è di 800.000 ciascuno.

Le multe da parte dell’Antitrust, come ricorda la newsletter Key4Biz, arrivano dopo le molte segnalazioni giunte all’Autorità nel 2014. In cui le associazioni di consumatori ma anche i singoli utenti di telefonia mobile denunciavano l’addebitamento di servizi premium – giochi e video accessibili durante la navigazione in mobilità mediante banner e pop up – da parte del proprio operatore sul credito telefonico.

L’ispezione, condotta con l’assistenza della Guardia di Finanza (il Gruppo Antitrust, nucleo speciale tutela mercati), ha accertato la pratica commerciale scorretta che si realizza in due tipi di condotta: “Da un lato, l’omissione di informazioni circa il fatto che il contratto di telefonia mobile sottoscritto pre-abilita la sim alla ricezione dei servizi a sovrapprezzo, nonché circa l’esistenza del blocco selettivo per impedire tale ricezione e la necessità per l’utente che voglia giovarsene di doversi attivare mediante una richiesta esplicita di adesione alla procedura di blocco”.

Dall’altro “l’adozione da parte dell’operatore di telefonia mobile di un comportamento qualificato come aggressivo, consistente nell’attuazione di una procedura automatica di attivazione del servizio e di fatturazione in assenza di qualsiasi autorizzazione da parte del cliente al pagamento, nonché di qualsiasi controllo sulla attendibilità delle richieste di attivazione provenienti da soggetti quali i fornitori di servizi estranei al rapporto negoziale fra utente e operatore.”

Oltre a vietare la continuazione e diffusione dei servizi multati, l’Antitrust ha fatto sapere agli operatori in questione di comunicare entro 60 giorni le iniziative assunte per “ottemperare la diffida.”

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Nelle telecomunicazioni c’è fermento. Mentre l’ad di Telecom Italia protesta contro la riduzione retroattiva delle tariffe di unbundling (l’affitto delle linee all’ingrosso pagato dagli operatori concorrenti), il governo francese lancia un piano di caratura quasi “asiatica”, orientate al 2022, che prevede una spesa di 20 miliardi (14 a carico dello stato) per portare la fibra ottica in tutto il Paese.

In Italia la discussione verte, anche, sulle soluzioni tecnologiche ibride di evoluzione della rete, come quelle sviluppate in Austria, Danimarca, Belgio e Germania, che potrebbero “fare da ponte” tra il cavo in rame e la fibra ottica: in particolare la soluzione del cosiddetto vectoring. Le cui possibilità e prospettive sono state illustrate in un convegno alla Luiss a Roma, promosso da Antonio Sassano, docente della Sapienza università di Roma e membro dell’Organo di vigilanza di Telecom Italia.

Il vectoring “spinge” la velocità a 100 Mbit sul rame, a distanze dell’ordine dei 250 metri ma, avverte Sassano, non deve essere considerato per sostituire l’arrivo della fibra nelle case o negli edifici, ma per essere complementare alle altre strategie, e quindi contribuire all’ottenimento del risultato finale. Del resto, occorre definire una mappa, delle aree, delle priorità, mentre “non è pensabile – aggiunge – che l’Italia sia l’unico paese e non porsi il problema”.

“Uno dei problemi di questa tecnologia – afferma ancora – è che può ricorrere al vectoring soltanto un operatore all’interno dello stesso cabinet (l’”armadio” sulla strada). In Germania hanno risolta stabilendo che il primo che arriva all’”armadio” fa il vectoring per tutti gli altri, ma perché si arrivi a questo è necessario che gli operatori si mettano d’accordo. E non è semplicissimo.

Posizioni diverse sono quelle espresse da Maurizio Dècina (“Nel mondo nessuno fa competizione sui cabinet, e dobbiamo anche registrare che il piano del governo è diverso dai piani degli operatori”, dice) e dal sottosegretario di governo Raffaele Tiscar: “Abbiamo scelto l’Ftth (la fibra fino a casa)- dice – perché l’Fttc non consente di raggiungere gli obiettivi dell’Agenda digitale europea. Se vogliamo portare a casa il risultato bisogna andare oltre il cabinet”. Sarebbe interessante capire come.

Sul tema del futuro della rete, in questi giorni, si assiste all’emergere di due visioni: quella un po’ “oltranzista” della “corrente renziana”, espressa dal sottosegretario Tiscar, che punta a liquidare al più presto la rete in rame, è quella espressa dall’operatore incumbent, cioè Telecom Italia, che non ha alcuna intenzione di buttare alle ortiche gli asset aziendali.

Ma è proprio necessario, si chiede qualcuno saggiamente, che la questione vada posta in termini di aut-aut? Nell’ultimo anno, qualche ripensamento l’hanno avuto anche in Australia, il Paese dove anni fa era partito uno dei maggiori piani-fibra governativi del mondo. Piano guidato da Solomon Trujillo, ex capo dell’operatore Telstra (vedi un’intervista del Corriere del 2007), che oggi pare interessato a entrare come investitore, e con altri investitori, in Telecom Italia.

Piano che, ora, secondo fonti legate ai produttori di apparati, potrebbe diventare meno “drastico” e più orientate a un mix di tecnologie. Del resto, la tecnologia evolve e c’è anche spazio per soluzioni intermedie e dinamiche allo stesso tempo. Portare la fibra per le strade costa. Portarla nelle case costa ancora di più. Vectoring e G.fast sono sistemi che permettono di superare i 100 Megabit/s senza buttare via (ma anzi utilizzando) il doppino di rame. Però, va specificato, su distanze brevi o brevissime.

La prospettiva potrebbe essere quindi quella di avvicinarci sempre più alla casa, lasciando al rame gli ultimi metri, in particolare quelli “verticali”, dalla strada alla casa. In questo modo avrebbero vinto un po’ tutti, almeno apparentemente.

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Le aziende che producono tecnologie per le telecomunicazioni sono da tempo protagoniste di forti turbolenze che, a seconda dei casi e degli interlocutori, vengono chiamate “ristrutturazioni” o “piani di rilancio”. E’ questo anche il caso di Alcatel-Lucent, leader di mercato insieme a Ericsson e Huawei, che ha in Italia un centro di eccellenza nelle tecnologie ottiche.

I sindacati ora chiedono d’incontrare il nuovo amministratore delegato di Alcatel Lucent Italia, Roberto Loiola, e di “riaprire un confronto” con la multinazionale franco-americana con base storica in Brianza, a nord di Milano. Il coordinamento nazionale aziendale Fiom, Fim, Uilm chiede l’apertura di un tavolo a cui siedano anche i rappresentanti del ministero dello Sviluppo economico.

“Per affrontare questa complessa ristrutturazione in modo responsabile – si legge in una nota congiunta delle tre organizzazioni – è necessario che l’azienda faccia dei concreti passi avanti in particolare sulla gestione degli ammortizzatori sociali per mitigare l’impatto economico, professionale e sociale sui lavoratori coinvolti dalla cassa integrazione, superando le posizioni pregiudiziali espresse finora”.

“Per l’Italia – dice Angela Mondellini, segretario generale della Fiom-Cgil Brianza – il piano di ristrutturazione denominato Shift Plan prevede 285 dipendenti in cassa integrazione: 100 da maggio, 100 da luglio e il resto dal gennaio 2015. Ai quali vanno aggiunti i 300 lavoratori delle tecnologie ottiche interessati allo scorporo di un ramo d’azienda”.

Roberto Loiola, 49 anni, ex vicepresidente di Huawei per l’Europa Occidentale, per ora non rilascia interviste. Forte di una lunga esperienza nel settore – prima nell’ex centro di ricerca Cselt di Telecom Italia, poi in Nokia Siemens e infine nel rampante colosso cinese – è stato chiamato a dare un contributo di competenza tecnico-commerciale, conoscenza dei mercati, spinta all’innovazione e gestione del cambiamento.

Lo Shift Plan, dice l’azienda, non è un “piano di ristrutturazione” ma piuttosto un programma di rilancio che prevede anche riduzioni di costi e di personale (diecimila posti nel mondo), secondo una logica che peraltro viene seguita anche da altri competitor. La strategia è quella di puntare sulle produzioni più innovative e dai più alti margini.

Il caso tipico è proprio quello delle tecnologie ottiche. La parte più tradizionale della produzione (quella che in gergo viene definita “legacy”) viene scorporata e data fuori in outsourcing mediante l’accordo con la Siae (niente a che vedere con la società autori ed editori). La parte più avanzata viene sviluppata all’interno di Alcatel Lucent.

E proprio a questo proposito (le cessioni di rami d’azienda, attuali e future, se ce ne saranno), i sindacati vogliono tornare a discutere “della ricostruzione di un quadro di garanzie occupazionali, industriali, economiche e normative”. Cioè garanzie che proteggano dalla turbolenza.

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Il governo ha dichiarato di voler accelerare la messa in opera dell’Agenda Digitale e la trasformazione informatica della Pubblica Amministrazione (Pa), che dell’Agenda rappresenta l’asse fondamentale. Se questa è l’intenzione, allora è importante che ne seguano atti coerenti: soprattutto quando si tratta di conciliare lo sviluppo tecnologico con i vincoli della spesa.

A questo proposito è interessante il caso della gara d’appalto in corso per il “sistema pubblico di connettività” della burocrazia, con una base d’asta di 2,4 miliardi di euro su sette anni, che sta suscitando le proteste degli operatori di telecomunicazioni più importanti, da Telecom Italia (che ha presentato ricorso) a Fastweb e a Wind.

Le critiche rivolte alla Consip, la Spa del ministero dell’Economia che gestisce gli acquisti per conto della Pa, sono sostanzialmente tre. In primo luogo i servizi previsti dal bando sarebbero inferiori alle attuali dotazioni della Pa: la velocità minima richiesta è di soli 8 mega (una soglia davvero molto bassa) in aree dove già oggi vengono utilizzati i 100 mega.

Ma, soprattutto, non sarebbero previsti quegli obblighi di copertura ritenuti indispensabili per sviluppare una capillare infrastruttura di nuova generazione: senza la quale non si realizzano i progetti della burocrazia digitale né si raggiungono i traguardi dell’Agenda 2014-2020. Parliamo infatti di servizi importanti come l’anagrafe digitale unica.

In terzo luogo, il bando prevede l’assegnazione al massimo ribasso e senza punteggio tecnico per le offerte, che penalizza gli operatori con infrastrutture in fibra ottica.

I ribassi pare siano arrivati al 90% rispetto alla base d’asta: un’ottima notizia per la riduzione della spesa pubblica, ma sarà garantita la qualità? La Consip (che in sedici anni, su mille ricorsi, ne ha persi solo due) assicura di sì. Tuttavia la vicenda sottolinea l’esigenza di trovare un equilibrio corretto tra i vincoli della spending review e le necessità, altrettanto stringenti, dell’innovazione. E richiede che il governo vi dedichi la dovuta attenzione.

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L’operazione Telefonica-Telecom Italia, che porta l’operatore spagnolo ad assumere la posizione di controllo in quello italiano, attraverso una serie di aumenti di capitale e rimescolamenti azionari, va vista in una dimensione europea. Nel mercato globalizzato di oggi, la dimensione degli operatori di telecomunicazioni assume un’importanza prioritaria. Quello delle tlc è un business stretto in una morsa ferrea: ha margini di profitto calanti e fabbisogni di investimenti crescenti, due elementi che stanno insieme a fatica.

Le economie di scala diventano insomma una scelta obbligata: e dal nuovo operatore italo-spagnolo ci si può aspettare la creazione di un colosso con una presa più vasta sui mercati europeo e sudamericano (Antitrust permettendo) e con costi più bassi. Con la capacità, ad esempio, di rivolgersi ai vendor di tecnologie (i vari Ericsson e Huawei) da una posizione di maggior forza e di più grandi volumi. Costi inferiori che possano consentirgli di realizzare maggiori investimenti nelle reti di nuova generazione fisse e mobili.

L’operazione ispano-italiana si può leggere anche come la seconda, grande tappa del consolidamento europeo, cioè della marcia verso la creazione di gruppi transnazionali, più grandi degli operatori domestici.  Marcia avviata da Vodafone – la più globale delle aziende con base in Europa – con acquisizioni come quella di Kabel Deutschland e una strategia mobile-fisso che punta a offrire i servizi con il margine più alto.

Tutto ciò è importante ma, dicono alcuni, e non senza ragioni, rischia di mettere in ombra il tema dell’italianità. La questione, a mio avviso, va scissa in due argomenti separati. Da una parte c’è l’interesse dei consumatori, che non è quello di avere quelli che l’economista Luigi Prosperetti chiama “i sette nani”, cioè operatori sostanzialmente nazionali, non abbastanza forti da impegnarsi negli investimenti che servono, e magari fanno anche buoni prezzi; ma piuttosto operatori con le spalle larghe, capaci di investire nelle reti del futuro, come stanno facendo i loro competitor asiatici. Chi viaggia avrà notato che è più facile vedere in azione una rete mobile di terza generazione ai confini della Cina che in Calabria o in Sicilia.

Dall’altra parte, il tema dell’italianità deve essere considerato in chiave storica: negli anni ’90, Tim avrebbe potuto tranquillamente comprarsi la Vodafone di allora e l’americana Air Touch, entrambi dossier che stavano sul tavolo dell’amministratore delegato Vito Gamberale. Il governo Ciampi convinse il top manager a soprassedere, perché, con quell’acquisizione, l’azienda sarebbe stata più difficile da privatizzare. Telecom Italia venne privatizzata, nei modi e con i risultati che tutti conoscono. L’Opa di Roberto Colaninno, e in parte la successiva gestione di Marco Tronchetti Provera, crearono un debito pesantissimo che, seppur ridotto dall’attuale management, ancora grava sulle spalle della società. Questo per dire che, nelle attuali condizioni, l’operatore storico italiano non può essere “predatore” ma soltanto “preda”.

E’ vero, anche Telefonica si è indebitata, ma lo ha fatto per crescere, per diventare internazionale, mentre Telecom Italia è stata letteralmente spogliata, come un ex impero da orde barbariche.

Un’ultima osservazione riguarda i regolatori e le regole della concorrenza. Dopo quindici anni di liberalizzazione, in cui i “nuovi entranti” sono stati aiutati e sussidiati con ogni genere di regole “asimmetriche”, che hanno aperto le porte a “nani e ballerine”, sarebbe ora di cambiare strada: e di smetterla con gli aiuti, lasciando che sopravviva soltanto chi sa fare il suo mestiere.

Il mercato europeo delle telecomunicazioni richiederebbe però che per tutti valessero le stesse regole. Invece, in questi anni, non si è fatto che rafforzare il potere dei regolatori nazionali, con un’accentuazione del frazionamento delle regole.

Colpisce, da questo punto di vista, il drastico cambiamento di rotta impresso alla sua azione dall’eurocommissaria all’Agenda Digitale Neelie Kroes, che ha proposto regole più favorevoli agli ex monopolisti per consentire loro condizioni più favorevoli agli investimenti. In modi si sono, ci siamo chiesti la ragione di questa svolta repentina. A quanto è dato di saperne, sono state le banche a convincerla: se vuoi le reti di nuova generazione, tanto richieste dai consumatori e dalle imprese, devi dare agli investitori alcune certezze sui ritorni. Altrimenti non se ne fa niente.

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“Secondo i nostri calcoli, in media ogni anno in Italia il 30% della produzione di arance finisce al macero. Perché non utilizzarle per creare abiti e pantaloni?”. La scommessa di Orange Fiber, uno dei dieci progetti selezionati da Changemakers for Expo Milano 2015, il programma di accelerazione d’impresa promosso da Telecom Italia ed Expo Milano 2015, parte da qui. Ma l’idea è nata molto prima, in un appartamento milanese che le due fondatrici del progetto, la designer Adriana Santanocito, 35 anni, e la professionista della comunicazione Enrica Arena, 27, condividevano. Entrambe catanesi, entrambe a Milano per studio e lavoro, hanno “costruito” la loro idea giorno dopo giorno, chiacchierando di progetti e passioni.

Tra gli agrumi ed i tessuti, le nanotecnologie: “Le proprietà delle arance vengono immagazzinate in microcapsule da fissare sul tessuto. Resistono fino a 40 lavaggi”, spiega Adriana. In gergo, si definiscono tessuti cosmetici. Ma l’applicazione non è solo cosmetica, come sottolinea Enrica: “I capi funzionano un po’ come una crema per il corpo: una volta indossati, rilasciano sulla pelle le sostanze contenute nelle microcapsule. Gli agrumi hanno proprietà anti-ossidanti, ma bisogna anche ricordare che la vitamina C è una delle più volatili: grazie al nostro progetto, sarà più facile garantirne il fabbisogno giornaliero”. In cantiere ci sono già una collezione di dieci capi, ispirata al concetto dell’abbraccio, e una collaborazione con associazioni di donne in difficoltà e persone svantaggiate per la realizzazione degli abiti. Nel team, oltre ad Adriana ed Enrica, ci sono anche la 28enne Paola Bonaccorsi, laureata in economia e management, Stefania Cauzo, 27enne laureata in economia aziendale, e Manfredi Grimaldi, 32 anni, esperto di economia agroalimentare.

Dal 1 marzo al 30 aprile il team vivrà nel campus tecnologico di Make a Cube, il primo incubatore in Italia specializzato in imprese ad alto valore sociale e ambientale. La selezione, che ha coinvolto oltre 580 progetti, è infatti solo il primo step del concorso: le dieci idee vincitrici verranno sviluppate e, al termine del periodo di lavoro nel campus, presentate ad una platea di possibili investitori e partner aziendali. “Orange Fiber ci ha colpito perché, nel suo campo, parte da un concetto abbastanza rivoluzionario: creare un capo di vestiario che faccia bene al corpo. E oltre alla moda e al benessere, punta anche a risolvere un problema ambientale“, racconta Matteo Bartolomeo, Ceo di Make a Cube. Ma risponde pure a uno dei requisiti indicati da Andrea Costa, il responsabile del programma Expo 2015 per Telecom Italia, e cioè “fare in modo che la tecnologia non sia fine a sé stessa. Cambiando la vita, in meglio, a milioni di persone”.